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Inaugurazione dell'anno accademico 2016/17

Protagonista della cerimonia di apertura, il poeta trapanese Tito Marrone. Il Presidente, prof. A. Tobia, ne ha illustrato la vita e l'opera letteraria. La serata è stata arricchita da musiche suonate al pianoforte dal Maestro Giuseppe D'Angelo

Relatore: prof Antonino Tobia

Immagine riferita a: Inaugurazione dell'anno accademico 2016/17Si riporta di seguito il discorso inaugurale del Presidente, prof. A. Tobia e la sua relazione sulla vita e l’opera di Tito Marrone a cinquant’anni dalla morte.-Gentili signori e signore, cari amiche ed amici, autorità presenti,due lustri sono trascorsi dal giorno in cui abbiamo intrapreso l’iniziativa di creare a Trapani un’istituzione culturale nuova nel suo genere. Si trattava di andare oltre l’università della terza età e di pervenire alla creazione di un cenacolo di esperti nelle diverse discipline che s’incontrassero con un pubblico attento, desideroso di socializzare e di ampliare i propri orizzonti culturali. Il programma era chiaro, come pure la strategia. Non si voleva pertanto porre limiti d’età, dal momento che la cultura è sempre verde e chi si approccia ad essa ha più difficoltà ad invecchiare perché i neuroni si riproducono e le sinapsi continuano a svolgere il loro compito. Da qui i due cartigli che fregiano il nostro labaro:iuvenibus ut crescant, senioribus ne senescant.In questi dieci anni abbiamo invitato e ascoltato centinaia di relatori, docenti universitari, intellettuali di varia umanità, esponenti del mondo laico e cultori del mondo religioso e simbolico, uomini di legge ed esperti di economia, medici di diverse specializzazioni, interpreti dell’arte pittorica e musicale.Incontri conviviali, gite e viaggi d’istruzione, concerti, una lodevole attività corale organizzata dalla prof.ssa Pastorino, concorsi e forme d’intervento anche economiconella valorizzazione delle testimonianze artistiche e culturali della nostra città danno la misura della vitalità della Libera Università,grazie soprattutto ai numerosi amici che da tanti anni  seguono l’operato del consiglio direttivo, manifestando la loro più alta stima per i programmi fin qui presentati.Da più parti c’è stata chiesta la motivazione che ha indotto il consiglio direttivo ad intitolare al poeta trapanese Tito Marrone il nostro sodalizio culturale. La risposta è una sola e conseguente all’incuria della nostra classe politica, che ha trascurato la memoria dei suoi figli migliori, dal filosofo gesuita Michelangelo Fardella, allo scienziato Leonardo Ximenes, dal compositore Antonio Scontrino al poeta e drammaturgo Tito Marrone. Da qui la dichiarazione ingenerosa dell’irruente giornalista-scrittrice Camilla Cederna che nel suo testo Il lato forte e il lato debole del 1992 annotava: Trapani è l’unica città della Sicilia che non ha scrittori e letterati. Per motivi che non si spiegano. Tante altre piccole città hanno i loro cantori di fama nazionale. Ma Trapani non ha mai avuto cantori né scrittori. Qui la contemplazione e l’elaborazione del pensiero non sono di casa'.È  chiaro che l’ irruente intellettuale, eccessivamente severa nei suoi giudizi politici e nella costruzione dei suoi teoremi, poco o niente conoscesse della biografia degli uomini che hanno illustrato la nostra città, sulla cui vita stese ben quattro volumi lo storico trapanese Giuseppe Maria Di Ferro nel XIX secolo.Tito Marrone, a cinquant’anni dalla morte ( Roma 2017), può degnamente essere eletto a nostro genius loci,  nella speranza che al suo nome possano essere intestate iniziative di prestigio letterario, ora soprattutto che il turismo ha avvicinato la città falcata al resto del mondo e ne ha fatto scoprire le bellezze paesaggistiche e le pagine che ha scritto nel mito e nella storia.Tito Marrone rappresenta uno dei personaggi più illustri che il mondo letterario del Novecento italiano possa annoverare.Sebbene le sue opere non abbiano avuto un vasto pubblico di lettori, un selezionato numero di autorevoli estimatori, dai conterranei Luigi Pirandello e Pier Maria Rosso di San Secondo ai suoi amici crepuscolari, dal critico Francesco Flora ai professori Andrea Bisicchiae Giuseppe Farinelli, accademici dell’Università Cattolica di Milano, ha apprezzato la sua produzione lirica e drammatica. Pertanto, nel decimo anno della nostra istituzione abbiamo avvertito l’ esigenza culturale di rinverdire alla memoria di noi trapanesi i meriti letterari di Tito Marrone, che già il prof. Salvatore Ferlita sulla Repubblica del 28 agosto 2007, a quarantanni dalla morte del poeta, aveva a ragione indicato come il nostro genius loci.Una particolare gratitudine va rivolta al prof. Maurizio Vento, che ha profuso le sue migliori doti di critico letterario nell’interpretazione filologica e poetica del Marrone. Come pure degno di plauso è la silloge degli Scritti di critica letteraria e teatrale di Tito Marrone curata da Salvatore Mugno, che ha pubblicato anche un interessante antologia del teatro marroniano.L’interesse crescente per il mito di Tito Marrone è altresì testimoniato dalla tesi di laurea della dott.ssa Maria Grazia Giacalone, che presso l’Università degli studi di Roma 'Tor Vergata' ha discusso nell’a. a. 2007-2008, relatore il prof. Carmine Chiodo, un approfondito lavoro di ricerca su 'Il mito di Tito Marrone tra i cenacoli degli amici e l’impegno culturale'.Sebastiano Amedeo Marrone, Tito è il nome da lui adottato per scelta personale a partire dal 1908, nacque a Trapani il 9 marzo 1882, in via San Francesco d’Assisi, di fronte al vecchio carcere, un palazzo abitato dalla buona borghesia cittadina, dove oggi figura la lapide fatta apporre con manifestazione pubblica dal direttivo della nostra Università, presenti autorità civili, religiose e del mondo accademico. Fu uno studente del Regio Liceo Ginnasio L. Ximenes con risultati non brillanti in latino, greco e matematica, migliori in italiano e filosofia. Nel 1900 conseguì  la licenza liceale. Il padre Francesco era professore di francese e nel 1902 con la moglie Filippa Bulgarella e l’unico suo figlio decise di trasferirsi a Roma, a seguito di alcune controversie sorte con i parenti per questioni ereditarie. A Roma s’iscrisse alla facoltà di lettere, conseguì la laurea, ma prima di dedicarsi all’insegnamento, fu chiamato alle armi nel corso della Prima guerra mondiale. Cessata la furia del conflitto mondiale, che ridisegnò i confini del Vecchio Continente, Marrone intraprese la carriera d’insegnante di francese, che concluse all’età di settant’anni nel 1952. Il soggiorno romano consentì al Nostro di venire a contatto col mondo letterario della capitale, tra cui il conterraneo Luigi Pirandello, più grande di lui di 15 anni, e con i tanti poeti che frequentavano il caffè Marini, da Sergio Corazzini a Corrado Govoni. Marrone allora cominciava a pubblicare i primi suoi versi in varie riviste letterarie, consapevole della sua originalità in un tempo dominato dalle personalità di Carducci, Pascoli e D’Annunzio.  Intanto, il critico Giuseppe Antonio Borgese in un suo articolo apparso il 10 settembre 1910 sul quotidiano La Stampa, recensendo le poesie di Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chaves, notava che la poesia italiana si avviava verso un malinconico crepuscolo, sottolineato dai toni tenui e dal ritmo prosastico dei nuovi verseggiatori che denunciavano una carenza di forti emozioni. Nasceva il termine crepuscolarismo. Nessuna corrente letteraria  è, tuttavia,priva di padri ed in effetti il mondo dei crepuscolari risentiva della poesia delle piccole cose, cara al Pascoli delleMyricae, come pure dell’atmosfera decadente del Poema paradisiaco di D’Annunzio (1893) e del simbolismo francese e fiammingo, da Verlaine a Jules Laforgue.Era la poesia della quotidianità piccolo borghese, contraria ad ogni forma di estetismo, che riscopre la sua intimità negli oggetti artistici di cattivo gusto, kitsch, in tedesco, dal pappagallo impagliato al busto di Napoleone, dalla madonna di Loreto sotto la campana di vetro posta sui comò all’orologio a cucù, il tutto accompagnato dal melanconico suono dell’organetto di barberia e dall’odore pungente dell’acido fenico delle corsie d’ospedale. Questo nuovo modo di poetare aveva come denominatore comune il bisogno di prendere le distanze dall’estetismo e dal superomismo dannunziani, senza creare, tuttavia, una scuola, senza uno statuto poetico, a differenza delle altre correnti sperimentali che andavano sorgendo nei primi anni del Novecento, dal Futurismo all’Ermetismo.A Marrone, però, la definizione del Borgese doveva apparire inappropriata, anche perché la sua esperienza, per così dire, di poesia crepuscolare l’aveva vissuta ancor prima dei poeti cui il critico siciliano attribuiva l’originalità del verseggiare crepuscolare. Da una lettera inviata da Roma al caro amico trapanese prof. Nicola Lamia del 26 settembre 1962 apprendiamo come lo stesso giudicasse la sfraghis della sua poetica crepuscolare e la sua originalità nei confronti dei tanti poeti chei critici del tempo consideravano i rappresentanti della poesiacrepuscolare:'Il poeta Gozzano (artista finissimo, ma di un limitatissimo mondo lirico: il solo che io stimo tra tutti i crepuscolari) io non l’ho mai personalmente conosciuto. Vero è che, nei suoi versi, vi sono tracce evidenti della mia poesia di quel periodo, che precedette di parecchi anni la sua'.Marrone, pur apprezzando la raffinatezza della poesia di Gozzano, tralascia di sottolinearne la vena di aristocratica ironia efocalizza la limitatezza del mondo lirico del poeta torinese. Gli preme, invece,rivendicare che prima di Gozzano egliaveva intriso di pacata e sussurrata nostalgia quel mondo poetico fatto di buone cose di pessimo gusto. Tale nota nostalgica accomuna i due poeti e traluce dalloro modo di rapportarsi col mondo così prossimo alla sensibilità del fanciullino pascoliano.I Colloqui di Gozzano videro la luce nel 1911, quando un anno prima  Giuseppe Antonio Borgese aveva identificato i tratti della nuova poesia cosiddetta crepuscolare.  Borgese non accenna minimamente alla produzione marroniana, diffusa già da tempo in varie riviste letterarie. Ignora che Marrone nel 1904 era stato, insieme con Pirandello, tra i firmatari dello statuto della Società dei poeti, e ignora che lo stesso aveva pubblicato opere poetiche già a partire da Cesellature del 1899, Le gemme e gli spettri nel 1901,e nello stesso anno a Trapani Le rime del commiato. Gozzano, che avrà l’onore di essere considerato il più autorevolerappresentante del crepuscolarismo, era quasi coetaneo di Marrone e, probabilmente,aveva avuto l’opportunità di leggere  i versi giovanili del poeta trapanese,  apparsi  nel 1896 sulla Gazzetta letteraria di Torino, la sua città. Non sarebbe difficile, pertanto, supporre che il poeta della Signorina Felicitaavesse apprezzato l’originalità e i nuovi toni del poetare marroniano e fosse stato incoraggiato a prendere le distanze dall’estetismo dannunziano e da un certo dandismo dei suoi anni giovanili.Nella medesima lettera, a proposito di Palazzeschi e di Gozzano, Marrone sottolineava che entrambi i poeti avevano appreso da lui il cosiddetto dialogato lirico, che egli aveva usato nella poesia italiana moderna per la prima volta.Il dialogo lirico, in greco kommòs, avveniva nella tragedia greca tra il coro e l’attore. La sua versione dell’Orestiade di Eschilo, rappresentata nell’aprile del 1906 a Roma presso il teatro Argentina, è una chiara testimonianza della familiarità del Nostro con il tetro greco, che egli volle riproporre in versi sulle scene italiane dopo secoli di silenzio. Poco lusinghiero appare il giudizio di Marrone su Govoni, il cui crepuscolarismo, gli appare assai limitato e senza sbocchi. Diversa  è, invece la valutazione che dàdi Sergio Corazzini, un amico a lui molto caro, forse giudicato dalla critica con troppa generosità, quando lo considera il caposcuola della poesia crepuscolare. Marrone, insomma, era convinto che la sua produzione crepuscolare era stata male imitatada piccoli poeti venuti dopo di lui, i quali si fecero, come annotò Luigi Pirandello, una fama con le sue spoglie.Il 30 settembre del 1909 Tito Marrone era colpito da un gravissimo lutto, che avrebbe inciso profondamente sulla sua vita e la produzione letteraria. Moriva di tifo all’età di appena 22 anni Maria Valle, la bella ragazza romana, fidanzata di Tito. Questa relazione amorosa divenne oggetto d’ispirazione dell’ultimo romanzo di Pier Maria Rosso di San Secondo Incontri di uomini e di angeli, in cui il grande drammaturgo siciliano ricostruiva la vicenda esistenziale di Vittorio (Tito) e di Valeria Bellaria (Maria), il loro primo incontro, gli episodi di un amore celestiale, la fine di un sogno, la morte. Maurizio Vento nel suo pregevole libro Tito Marrone e Maria Valle nei primi anni del novecento (2007), tra le pagine di critica e di interesse biografico, riporta la lettera spedita da Albano Laziale il I° ottobre 1909 dal fratello di Maria al padre di Tito, prof. Francesco, in cui annunciava la morte della sorella. Visi legge tra l’altro: ' … Maria è morta. È morta dopo ventisette giorni di febbre quasi continua, dopo aver sofferto de’ tremiti spaventosi che duravano 30, 40 minuti … niente ha potuto salvarla; tutto ha sopportato con l’eroica rassegnazione di una martire, con la soave semplicità di una bambina … È un angelo! hanno detto le donneche l’hanno assistita, è una santa! ha detto la suora infermiera. … Intanto vada preparando il povero Tito e lo esorti a mostrarsi forte come si è mostrata forte la sua povera Maria. Ho conservato per lui la fotografia del letto di morte, de’ fiori e una ciocca di capelli'.La triste fine della sua donna amata, l’indifferenza della critica nei suoi confronti, il suo stesso temperamento poco incline ai rumori della vita indussero il Nostro ad un periodo di silenzio durato quarant’anni. A giudizio del prof. Andrea Bisicchia dell’Università Cattolica di Milano, come si legge in Maurizio Vento (L’Orestiade di Marrone e la stabile di Boutet, in Arkeomania.com), il silenzio di Marrone potrebbe essere dovuto al fallimento finanziario della 'Compagnia stabile della città di Roma' di Eduardo Boutet, a seguito delle ingenti spese affrontate dal critico drammatico e impresario per portare sulla scena del teatro Argentina di Roma nel 1906 il dramma Giulio Cesare di Shakespeare e l’Orestiade di Eschilo nella traduzione in versi di Tito Marrone e di Antonio Cippico,professore di Letteratura italiana alla Università di Londra e senatore del Regno d’Italia.Dopo la Seconda guerra mondiale il poeta decise di dare alle stampe alcune sue opere, con immediati riconoscimenti poetici, come testimoniano il Premio Fusinatoper Carnascialate, Poemi Provinciali, Favole e fiabe e nel gennaio del 1950 il Premio internazionale di Poesia Siracusa per il poema lirico Esilio della mia vita.Come Tito Marrone scrisse in una lettera all’amico trapanese Nino Genovese, la sua ambizione era quella di voler 'essere quanto più possibile moderno', di una modernità che non coincideva con nessuno dei movimenti che affollavano la repubblica delle lettere del primo Novecento. La sua poesia mirava al raggiungimento di 'un vigilantissimo senso dello stile, della lingua, del ritmo italiani'. Per tale motivo, se è corretto considerare Tito Marrone un anticipatore dell’atmosfera crepuscolare, gli si farebbe torto, come già ho notato in un mio precedente intervento su Tito Marrone tra Classicismo e Crepuscolarismo, se lo si volesse circoscrivere solo in tale cornice. Egli volle essere un poeta seguace della tradizione e allo stesso tempo figlio del suo tempo. Così, del resto era apprezzato dai suoi amici della levatura di Luigi  Pirandello e di Pier Maria Rosso di San Secondo,al cui entusiasmo ed incoraggiamento ad uscire dall’ombra rispondeva col silenzio. Un silenzio, tuttavia, che non giustifica lo scarso interesse che gli editori hanno mantenuto nei confronti della vasta produzione poetica e drammaturgia dell’autore anche dopo la sua morte. L’immagine che ha lasciato ai posteri è quella di un poeta sepolto vivo, che Lucio D’Ambra, romanziere e autore drammatico lui stesso, non giustificava, perché non accettava quel vivere appartato di Marrone, intento ad un estenuante, quanto non necessariolaborlimaedelle sue opere. Lo stesso D’Ambra annotava che il più grande drammaturgo europeo del Novecento, Luigi Pirandello, amico e conterraneo del Nostro, assicurava che Marrone era un drammaturgo di prim’ordine, che creava e uccideva nei suoi cassetti 'tutt’un mirabile teatro che farebbe la fama d’uno scrittore e l’onore d’una letteratura'. L’atteggiamento che l’autore aveva verso la notorietà era di olimpico distacco. Ancora nel 1942 Marrone scriveva all’amico palermitano De Maria che non si sentiva pronto a cedere la sua commedia Le fidanzate, scritta nel 1909, perché abbisognava di correzioni e di rimaneggiamenti, che gli impedivano di farla rappresentare sulla scena dell’Eliseo, come più volte gli era stato richiesto con insistenza.Dal punto di vista letterario si potrebbe pensare che Tito Marronenon acconsentisse a licenziare un suo lavoro, quand’esso non fosse stato giudicatoexpolitus ad unguem,  per dirla con Orazio, a causa di un indefinito horror vacui, che in arte implica un’eccessiva attenzione ai particolari e ai dettagli. O forse una certa ritrosia a misurarsi con la critica impediva al Nostro di dare alle stampe la sua produzione artistica.Una più approfondita analisi psicologica, però, indurrebbe a riflettere sulla condizione umana in cui si trovò a vivere il poeta dopo la morte della madre e soprattutto della amatissima Maria. Gli era crollato il mondo degli affetti e le speranze di un amore che avrebbe dato un senso alla sua vita. Erano rimasti solo i ricordi della sua adolescenza, delle persone che aveva amato, la nostalgia della sua terra, che aveva dovuto abbandonare, quando la musa aveva cominciato a far sentire i primi vagiti, la corrispondenza con gli amici che aveva lasciato a Trapani. Allorché tutto ciò che si è amato si dilegua alla nostra vista e la realtà diventa esperienza onirica, non resta che l’eco delle cose care, la  cui voce è essa stessa poesia, è la stessa anima che si preferisce custodire gelosamente nel proprio cassetto.Trapani, 22 ottobre 2016.prof. Antonino Tobia

Immagine riferita a: Inaugurazione dell'anno accademico 2016/17La serata è stata  allietata dal maestro Giuseppe D’Angelo che si è esibito al pianoforte con musiche di Beethoven e Chopin

 

 

 

 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 22 Ottobre 2016 nella categoria Relazioni svolte