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200 anni dopo l'Infinito

Una lezione magistrale sulla poesia l'Infinito di Leopardi è stata tenuta da Antonino Tobia davanti ad un numeroso ed interessato pubblico

Relatore: Prof. Antonino Tobia

Immagine riferita a: 200 anni dopo l'InfinitoImmagine riferita a: 200 anni dopo l'InfinitoL’infinito è il primo dei sei piccoli idilli pubblicati da Giacomo Leopardi sulla rivista Nuovo Ricoglitore, tra il dicembre 1825 e il gennaio dell’anno successivo. L’idillio però era stato composto anni prima e precisamente tra la primavera e l’autunno del 1819, quando il poeta viveva il suo ventunesimo anno di una vita e il dramma della sofferenza più acuta. Eppure fino a sedici anni pare che Giacomo non presentasse alcuna deformità. Il marchese Filippo Solari di Loreto, ricordato da Pietro Citati, aveva conosciuto il ragazzo in buone condizioni fisiche, mentre nel 1819 già lo descriveva 'deforme'. Era rimasto basso di statura, non oltre 1 metro e quarantuno centimetri, molto esile nel busto, robuste le gambe, con due gibbosità nella parte anteriore e nella parte posteriore del corpo. Era stato colpito dalla tubercolosi ossea o morbo di Pott. A questi mali si aggiunsero disturbi dell’apparato digerente, impotenza, oftalmia, insufficienza respiratoria, asma, idropisia, debolezza cardiocircolatoria.Nel 1826 il poeta pubblica la raccolta Versi presso la Stamperia delle Muse di Bologna, insieme con altri componimenti, e affida a questo Idillio l’ apertura della sezione, che comprende La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, il Frammento XXXVII.L’idillio presenta al lettore un panorama essenziale della natura del luogo, in cui il poeta era solito recarsi per le sue passeggiate, un po’ fuori Recanati. Il colle Tabor e la siepe entrano subito in scena, privi di una particolare descrizione fisica. La natura, infatti, in questo idillio, non ha il ruolo di protagonista, ma è in funzione dell’io. La scelta delpassato remoto del verbo essere, 'sempre caro mi fu…' non indica la conclusione di un’azione o il trascorso lontano di una sensazione, quanto un recupero memoriale indeterminato, che si ripete puntualmente senza un preciso orizzonte spazio-temporale. Svolge, insomma, la funzione dell’aoristo greco, lontanissimo dal perfetto latino, la cui temporalità il Manzoni due anni dopo utilizzerà per sigillare icasticamente la fine della vicenda terrena di Napoleone. Del resto, l’avverbio 'sempre', accostato al verbo, sottolinea l’indeterminatezza di quella cara sensazione, che va oltre il presente, conserva il senso del tempo trascorso e si proietta nel futuro. La scelta dell’aggettivo 'ermo', quale attributo del colle, contribuisce alla dissolvenza dei suoi contorni naturali e gli conferisce un alone di liricità. L’aggettivo, non logorato dall’uso, emana, infatti, quel senso di mistero e di profana sacralità, che il poeta cogliere come l’incipit della sua esperienza lirica.Nessun aggettivo, al contrario, è attribuito alla siepe, priva della vaghezza che circonfonde il colle. Ma è proprio questa, che impedisce al poeta di ammirare gran parte della linea dell’orizzonte. E così, per rifarci a Fichte, che ha saputo bene interpretare l’anelito dell’uomo romantico verso l’infinito, la siepe funge da non-io, è l’ostacolo che l’io leopardiano deve superare, se vuole procedere oltre quanto gli è precluso dai limiti sensoriali.Cos’è l’uomo, si chiede Blaise Pascal (1623-1662) : È un punto nello spazio immenso che ci circonda, un istante nel tempo e nel millennio della storia, eppure col suo pensiero abbraccia spazio e tempo.La biblioteca paterna conteneva i testi del grande intellettuale francese e non è difficile immaginare che tali meditazioni filosofiche echeggiassero nello spirito e nella mente del giovane poeta. E così il limite naturale della vista fisica è superato dalla sconfinata visione interiore, che abbraccia spazio e tempo.L’incipit di tale esperienza straordinaria è introdotto dai due gerundi 'sedendo e mirando'. Si tratta di due modi non finiti con valore temporale, atti ad indicare l’inizio di quel processo, che porterà il poeta lontano da 'quella ' siepe, ove la sostituzione del precedente deittico 'questa' con 'quella' esplicita il nuovo contesto spaziale. Ma la siepe rappresenta simbolicamente anche il motivo dell’esclusione, che va considerato il tema centrale dell’ispirazione dell’Idillio.Nel 1819, nei momenti di treguadella malattia, Giacomo cominciò ad organizzare la fuga da Recanati. Aveva compiuto 21 anni, era quindi maggiorenne e poteva chiedere il rilascio di un passaporto. Non ne parlò con nessuno dei familiari, di nascosto riuscì ad impadronirsi di una certa somma di denaro dallo ’stipo’ del padre e il 29 luglio inviò la domanda per il rilascio di un passaporto per il Lombardo-Veneto alla Delegazione di Polizia di Macerata. Giacomo aveva scritto al delegato che suo padre era a conoscenza della richiesta e che lo ringraziava per quanto avrebbe fatto. Aveva, quindi, aggiunto alla lettera la somma per la relativa tassa del bollo e un suo breve autoritratto per i connotati: aveva compiuto 21 anni, statura piccola, capelli e sopracciglia neri, occhi cerulei, naso ordinario, bocca e mento regolari, carnagione pallida, nessun segno particolare. Da Macerata la pratica passò a Roma, dove venne completata, autorizzata da papa Pio VII e controfirmata dal marchese Filippo Solari, parente della famiglia Leopardi. Quindi il passaporto ritornò a Macerata, pronto per essere consegnato al richiedente. Per caso o a bella posta, il marchese Filippo Solari, che in quel periodo villeggiava a Recanati, scrisse allo zio di Giacomo, Carlo Antici, che aveva rilasciato il passaporto al nipote e che gli augurava buon viaggio. Lo zio Carlo si precipitò da Monaldo, il quale si ritenne profondamente offeso dal piano di fuga del figlio ed inviò le sue rimostranze alla Delegazione di Macerata. A questo punto, il passaporto fu inviato non a Giacomo ma al padre con mille scuse del delegato. Giacomo ancora una volta si sentì prigioniero e cedette alla scena patetica di Monaldo,che gli dichiarava tutto il suo amore. Il 1819 è l’anno della composizione dell’Infinito, e segna il momento in cui: l’immaginazione mette le ali alla disperazione del giovane poeta che, come Icaro,riesce a superare le mura della prigione e a librarsi in una dimensione sconfinata.Alla stregua delfiglio di Dedalo,Leopardi è preso dall’ebbrezza del volo e, seppure per un attimo il suo cuore provi paura di quell’immensità, egli non teme di confondersi con l’infinito e in esso  di naufragare. La dolcezza del naufragio è prodotta proprio dalla sensazione di annegamento, che colloca tutto l’essere del poeta in una dimensione indefinita nel tempo e nello spazio: sovrumani silenzi, profondissima quiete e le morte stagioni popolano questa immensità, che si scontra dialetticamente col presente, richiamato bruscamente dallo stormire del vento tra le piante. Sterminati, sovrumani, profondissima sono aggettivi essenzialmente poetici, poiché esprimono il senso del vago e dell’indistinto, caro alla poetica leopardiana. Ma come la siepe con il suo limite visivo ha consentito al poeta di immergersi nel suo infinito spaziale, la sensazione uditiva del fruscio delle fronde  gli consente di navigare verso un infinito temporale, scandito dalle epoche storiche trascorse, ormai avvolte nel silenzio della morte, di contro al suono della vita che ristabilisce il limite.L’infinito, prodotto dai sensi e amplificato dall’immaginazione,richiama l’eterno che, tuttavia, resta pur sempre su un piano sensoriale, immanente e mai metafisico. Si tratta di uneterno vissuto, scandito dalla storia dell’umanità.La sete d’infinito leopardianonasce dall’ansia di evasione che accomuna il giovane poeta ai suoi contemporanei, che aspirano ad andare oltre il razionalismo illuministico e, al pari dei Titani, inneggiano alla libertà assoluta, eroi e vittime allo stesso tempo. Se la ragione rappresenta lo strumento indispensabile all’incivilimento dei popoli e indirizza gli stessi verso l’istituzione di una 'social catena', essa è allo stesso tempo rivelatrice dei limiti cui la natura ha assoggettato l’uomo.L’eterno, cui il poeta accenna nell’Idillio, non ha un carattere mistico né metafisico. Semmai l’Infinito è il paradigma delle potenzialità umane, la sfraghìsdella grandezza e della finitezza dell’uomo, capace di elevarsi dal reale al sublime e di scoprire allo stesso tempo che il suo infinito è solo virtuale, in potenza e non in atto.Del resto, senza il tormento e l’estasi dei romantici, ma con la pacatezza dell’intellettuale umanista, Pico della Mirandola aveva felicemente immaginato nella sua Oratio de hominis dignitate, che il Creatore, plasmando l’uomo così aveva deliberato: Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine'. Nei Disegni letterari del 1828 il poeta definirà la natura tutta personale dei suoi Idilli, come componimenti che  esprimono "situazioni, affezioni, avventure storiche'  del suo animo che, in determinati luoghi, intrisi di ricordi e quindi familiari, si accende di commozione e si dispone alla trasfigurazione fantastica del reale, in una dimensione intima e personale. La radice -id del verbo greco politematico 'orào' , acquista nell’idillio leopardiano qualcosa di diverso rispetto alla rappresentazione naturalistica degli idilli di Teocrito e dii Mosco, poeta del II secolo a. C., di cui Leopardi tradusse gli idilli. La poetica dell’indefinito nasce dalle riflessioni di Leopardi sul piacere, e trova le sue radici nel Sensismo. Il piacere non esiste se non come cessazione temporanea del dolore ed è il risultato di uno stato d’animo sorpreso da una visione lontana, da un suono indefinibile, dalla vaghezza di un ricordo. L’infinito coincide col piacere, anch’esso irraggiungibile e ad esso come all’infinito tende lo slancio vitale dell’uomo. Il piacere e la felicità sono raffigurazioni dell’immaginazione, la quale aiuta l’uomo a superare i limiti fisici della natura: 'l’anima si immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario'. In filosofia , Anassimandro, filosofo presocratico del VI sec. a. C. , introduce il concetto di infinito come principio  di tutto: tutto è nato dall’infinito (àpeiron) e tutto tornerà nell’infinito. L’àpeiron dà vita alla materia attraverso un  processo di separazione e di differenziazione degli opposti. Da tale processo, per cui il caldo si separa e si differenzia dal freddo, come il secco dall’umido, nasce il mondo reale, finito e limitato. Questo processo continua in eterno. La separazione genera lotta e ingiustizia, pertanto è destinato a perire e a ritornare nell’àpeiron. Alla luce di un’interpretazione cristiana, la separazione dall’infinito, che coincide con Dio pantocratore, è all’origine del peccato, come pure del limite che è imposto ad ogni creatura con la morte, che riporta ogni cosa nel Tutto. Oggi i cosmologi suppongono che tutto sia nato dal Big Bang originario, la grande esplosione da cui 15 miliardi di anni fa avrebbe avuto origine l’Universo. Il Big Bang ha prodotto separazione e differenziazione dall’uno, a cui tutto ritornerà col Big Crunch, quando l’Universo inizierà a collassare su se stesso. Aristotele (IV sec. a. C.) distingue l’infinito in atto e l’infinito potenziale. Parlare di infinito attuale, però, comporterebbe assegnare un limite all’infinito, che gli impedirebbe di andare oltre. Ma la realtà fa parte dell’infinito e non può comprenderlo nella sua totalità. Solo l’immaginazione consente alla mente umana di percorrere l’infinito che resta pur sempre potenziale. Così Antifonte sosteneva che era possibile la quadratura del cerchio, inserendo nella circonferenza poligoni dai lati sempre più piccoli. Il tentativo era solo potenziale, anzi esprimeva un paradosso, quello, cioè, che l’infinità dei poligoni dai lati sempre più piccoli  dava vita ad un infinito in atto, il cerchio, apparentemente finito, che comprendeva l’infinito potenziale del numero sempre crescente dei lati del poligono  iscritto.È probabile che Leopardi sia entrato in sintonia, soprattutto, con il pensiero del grande poeta latino, Lucrezio, autore del De rerum natura. Nel primo libro del suo poema, dopo aver mostrato le caratteristiche degli atomi con il loro movimento eterno, egli si chiede se questi siano infiniti nel numero e nel e se lo spazio sia infinitoe quindi se l’universo sia infinito.La  conclusione cui perviene è che non esiste niente al di fuori dell’universo, che è infinito e si estende in ogni direzione : Tutto ciò che esiste in nessun modo è limitato, diversamente avrebbe dovuto avere un estremo;  ma è chiaro che non ci può essere nessun estremo di nessun oggetto se non c’è al di là qualcosa che lo limiti, sì che appaia un punto oltre al quale non può andare la natura dei sensi . Ma poiché si deve ammettere che non c’è niente oltre l’insieme del tutto, esso non ha un estremo e dunque non ha misura e confine (l. I vv.   ).Con Lucrezio la definizione di Infinito non prescinde dalla valutazione fisica dai presocratici ad Aristotele. Con l’avvento del Cristianesimo, il concetto d’infinito si sposta dal piano fisico a quello metafisico, assumendo un carattere religioso. L’infinito coincide con Dio, creatore non creato di tutte le cose, anzi è un suo attributo. L’infinito metafisico si fa sempre più dommatico, sfugge ad ogni tentativo logico di comprenderne la natura. Finito e infinito appaiono inconciliabili. L’uomo scopre la sua finitezza nel distacco dal Creatore. Il peccato lo ha separato dall’Infinito-Dio fin dalla sua origine. Questo modus cogitandi  fideistico, proprio del Medioevo, sarà superato  con l’avvento dell’Umanesimo e con la rinascita della dignitashominis.Il rapporto microcosmo macrocosmo ritrova il suo equilibrio e al teocentrismo medievale, che schiacciava l’uomo sotto il peso del suo peccato originale, subentra l’antropocentrismo, che riconcilia l’uomo con l’Infinito-Dio-Universo. Cristo ha restituito all’uomo con il suo sacrificio la destra del Padre. Il viaggio di Dante verso l’infinito è il nucleo tematico della sua Commedia. Egli ha provato il privilegio di ascendere con tutti i sensi verso la visione dell’Eterno, sostenuto dalla fede (Beatrice) e sorretto dall’intercessione della Madre di Dio, invocata da san Bernardo e supplicata coralmente da tutti gli spiriti beati.  ' Io credo, per l’acume ch’io soffersi/ del vivo raggio, ch’  i’ sarei smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi./ E’ mi ricorda ch’io fui più ardito/ per questo a sostener, tanto ch’ i’ giunsi/l’aspetto mio col valore infinito' (Par. XXXIII  VV. 76-81). L’esperienza che il poeta vive è assolutamente straordinaria, ma mette insieme finito e infinito come accade al poeta di Recanati. Entrambi dal contingente pervengono all’Eterno, entrambi provano un profondo smarrimento che in Dante coincide con il penetrare l’essenza  di Dio,  nel cui profondo vide ' che s’interna, /legato con amore in un volume,/ ciò che per l’universo si squaderna:/ sustanze  ed accidenti e lor costume/ quasi conflati insieme, per tal modo/ che ciò ch’io dico è un semplice lume./ La forma universal di questo nodo/ credo ch’i’ vidi, perché più di largo,/ dicendo questo, mi sento ch’ i’ godo(VV. 85-93).  Se l’Infinito dantesco e oltre di sé, l’Infinito leopardiano è in sé, un viaggio interiore, una illuminazione che s’immerge nell’incommensurabilità di un mare in cui è dolce naufragare. Difficile stabilire la diversa natura dei due infiniti. Non cambia il punto di partenza, comune a tutti gli uomini, quello di chiedersi chi siamo, da dove veniamo, verso quale dimensione ci moviamo. Non cambia il punto di arrivo, che coincide con il connaturato istinto a guardare oltre il contingente e ad immaginare quanto non cade direttamente sotto i nostri sensi con gli strumenti mentali, filosofici,  religiosi, di cui disponiamo.Gli studi sull’infinito oggi sono oggetto della cosmologia, ma non possono sottrarsi alla speculazione filosofica. Già, l’eretico Giordano Bruno, nei suoi dialoghi cosmologici, elaborò una concezione dell’infinito come Universo, comprendente natura naturans e natura naturata.Scopriremo se l’universo è finito o infinito?Per ora concludiamo con lo sberleffo ironico del grande scienziato Albert Einstein, quando ad un intervistatore, che gli chiedeva cosa pensasse dell’infinito, rispose: 'Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima'. prof. Antonino Tobia

Autore Prof-Greco

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Inserito il 29 Ottobre 2019 nella categoria Relazioni svolte