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Il prof. Antonino Tobia rivisita i poemi classici alla Libera Università

La “Lectio magistralis” del prof. Tobia si è articolata sul tema “La donna, l'amore, la divinità nell'Iliade”

Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato

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Premessa
La scelta della rivisitazione dei poemi classici, a partire dall’Iliade, risponde all’esigenza di rinverdire la cultura umanistica, oggi in completo dissolvimento. La poesia epica dell’antichità greca rappresenta l’incunabolo dell’idea europea dell’educazione, che fino agli anni ’60 iniziava con rosa-ae, la chiave che consentiva a ciascun adolescente di penetrare nel mondo meraviglioso di una civiltà sconosciuta, dalla quale traeva origine la sua stessa civiltà.
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Omero e la poesia epica

La letteratura greca comincia con due grandi poemi epici, attribuiti ad Omero: l’Iliade e l’Odissea, che hanno come sfondo la guerra di Troia.  Incerta è l’esistenza di Omero, anche perché non ci è stata tramandata alcuna notizia sicura circa la sua patria, gli anni in cui visse e la genesi stessa dei due poemi. Visse forse nel  IX, VIII secolo a. C.  e ben sette città si disputarono l’onore di avergli dato i natali (Atene, Argo, Chio, Colofone, Rodi, Salamina, Smirne, e, per quanto riguarda l’Odissea, la stessa Trapani). Nell’Inno ad Apollo, a lui attribuito, il vate Omero si autodefinisce un rapsodo vecchio, cieco, mendico, girovago, un cantore che girava per la Grecia antica recitando canti epici, accompagnandosi con la cetra. Gli antichi non dubitarono dell’esistenza di Omero, ma già in età alessandrina cominciarono ad essere segnalate le differenze di lingua, di stile, di comportamenti sociali, di religione, di morale tra i due poemi, dalla cui indagine nacque la questione omerica.  Se Aristarco di Samotracia, grammatico alessandrino, vissuto intorno al II secolo a. C., sosteneva la tesi dell’autore unico, attribuendo l’Iliade ad Omero giovane e l’Odissea al vate ormai vecchio, a partire dal diciottesimo secolo cominciò a farsi strada la teoria dei cosiddetti analisti, che individuarono nei due poemi vari filoni narrativi, risalenti ad epoche diverse. Pertanto, Omero non veniva riconosciuto come l’unico autore dei poemi, considerati come l’espansione di un nucleo primitivo: l’Ira di Achille per l’Iliade, il ritorno di Odisseo per l’Odissea. Immagine riferita a: Il prof. Antonino Tobia rivisita i poemi classici alla Libera Università Omero sarebbe stato il più famoso degli aedi di tanti canti minori, ciclicamente rotanti attorno ai due argomenti. Il filosofo napoletano, G. B. Vico, nel terzo libro della Scienza nuova seconda del 1730, dal titolo Discoverta del vero Omero negava l’esistenza del poeta e sosteneva che i due poemi fossero l’espressione impersonale dell’anima arcaica del popolo greco, ritenendo erroneamente che al tempo di Omero non esistesse la scrittura, introdotta in Grecia agli inizi dell’VIII secolo. Nel 1795 F. A. Wolf nei Prolegomena ad Homerum negò l’esistenza del poeta e sostenne che i due poemi fossero originati da brevi componimenti, opera di più aedi, raccolti organicamente al tempo di Pisistrato, tiranno di Atene del VI sec. a.C., per espressa volontà del figlio Ipparco, che avrebbe introdotto ad Atene i canti di Omero ed imposto ai rapsodi di recitarli alle Panatenee[1]. Tale redazione pisistratea è menzionata da Cicerone[2], mentre, secondo Diogene Laerzio, l’iniziativa della raccolta redazionale deve essere attribuita a Solone, che precede la tirannide di Pisistrato.  Ancora oggi la questione omerica è aperta e i pareri sono discordanti tra gli analisti, che sottolineano una certa stratificazione diacronica, che escluderebbe l’attribuzione dei poemi ad uno stesso autore e gli unitari, che sostengono l’esistenza di un unico narratore, erede di una tradizione narrativa orale. Al di là della vexata quaestio, è indubbio che l’opera di Omero costituì un modello di epica narrativa per i secoli a venire, ma soprattutto continua a fornirci testimonianze dirette del modus vivendi, dei rapporti sociali ed economici, della morale, della religione e, infine, del grado di civiltà della società greca del periodo arcaico.
L’Iliade è un poema epico in esametri, in 24 libri, tanti quanti sono le lettere dell’alfabeto greco. La divisione in libri fu fatta dai filologi alessandrini nel III secolo a. C. circa. Il titolo dell’opera deriva dal nome greco della città di Troia, Ilio, sotto le cui mura si svolge la vicenda narrata. Si tratta della famosa guerra tra i Greci, che Omero chiama genericamente Achei, e i Troiani seguita al rapimento della bellissima Elena, moglie di Menelao, da parte di Paride, figlio del re troiano Priamo. I Greci in campo sono in tutto 120.000 uomini con 44 duci, rappresentanti 29 popoli della Grecia, venuti su 1186 navi. I Troiani sono in tutto circa 50.000 uomini con 27 duci, rappresentanti 16 popoli della Troade, del continente asiatico ed europeo. Lo scontro tra i due popoli durò 10 anni con alterne vicende, ma Omero ci narra gli ultimi 51 giorni, imperniando la narrazione sul contrasto tra i due più importanti condottieri del campo greco, Achille e Agamennone. Immagine riferita a: Il prof. Antonino Tobia rivisita i poemi classici alla Libera UniversitàEroi, donne, divinità, atti di ferocia e di pietà, combattimenti audaci e fughe improvvise, amore di padre, di madre, di sposo, di figlio, testimonianze di arroganza e di sincera amicizia scorrono sotto gli occhi del lettore, che ieri come oggi sente il suo cuore palpitare e la sua immaginazione entrare in sintonia con quella dell’autore. Si presenta un giorno nel campo acheo Crise, un vecchio sacerdote di Apollo, che chiede il riscatto della propria figlia Criseide, schiava e concubina di Agamennone. Il sacerdote indossa i paramenti della sua dignità sacerdotale e inoltre porta con sé ricchi doni per il riscatto. Ma il superbo Agamennone scaccia il vecchio, minacciandolo aspramente: 'Vecchio, non far che presso a queste navi / ned or, né poscia più ti colga io mai; /ché forse nulla ti varrà lo scettro / né l’infula del dio. … / Or va’, né m’irritar, se salvo ir brami' (l. 1. 33-41) Col cuore colmo di sdegno per l’offesa arrecata al suo sacerdote, Apollo, invocato da Crise, scende dall’Olimpo e per nove giorni semina strage con le sue frecce nel campo acheo. Achille, ispirato dalla dea Giunone, protettrice dei Greci, convoca a parlamento tutti i guerrieri ed invita l’indovino Calcante a dare una sua interpretazione dell’ira divina. Dopo essersi assicurata la protezione del Pelide, Calcante dichiara che la causa di tutti i mali è l’oltraggio arrecato al sacerdote di Apollo e aggiunge che la strage cesserà solo se Criseide sarà consegnata al padre. Le parole dell’indovino indignano Agamennone, che pretende in cambio la bella Briseide, guancia gentile, schiava-concubina di Achille. Il figlio di Teti, preoccupato della triste sorte dei Greci, accetta, ma giura di ritirarsi dalla guerra, offeso dall’egoismo e dall’arroganza di Agamennone, che con accenti di superbia si rivolge al divino Achille (l. 1. 240-285). Il rapporto che legava l’uomo greco alla concubina non era segnato solo dall’appetito sessuale, molto spesso tra il padrone e la schiava, prigioniera di guerra, nasceva anzi un profondo sentimento d’amore, che raramente era presente nella vita matrimoniale. E gli stessi figli che nascevano da queste donne non erano discriminati rispetto a quelli legittimi, sebbene con diritti diversi. Una gerarchia di valori esisteva tra la moglie e la concubina, pur vivendo entrambe sotto lo stesso tetto e dividendosi lo stesso letto. Achille con Briseide aveva stabilito una convivenza felice di profondo amore, se Omero presenta l’eroe piangente mentre la fanciulla si allontana mal volentieri dalla sua tenda (l.1 456-462). La presenza delle divinità nell’Iliade attraversa e condiziona tutto lo svolgimento dell’azione, che dal volere delle singole divinità, dalle loro scelte, dalle loro decisioni prende vita. Così Teti, la madre di Achille, prega di nascosto Zeus affinché acconsenta a vendicare l’offesa arrecata da Agamennone al figlio. Ma Giunone, gelosa del marito, spia il colloquio e rimprovera allo sposo di avere ceduto alle suppliche della ninfa e ne nasce una lite coniugale violenta, sedata dall’intervento di Vulcano, che consiglia prudenza alla madre. Anzi, in proposito le ricorda il gran capitombolo che gli fece fare Zeus adirato, scagliandolo giù dall’Olimpo, rendendolo per sempre claudicante. E così zoppicando cerca ora di rasserenare gli animi, offrendo agli dei coppe di nettare. Gli dei omerici sono presentati ad immagine e somiglianza degli uomini, con pregi e difetti smisuratamente maggiori, data la loro potenza e immortalità. Sono lontani da ogni  sacralità divina, descritti senza alcun rispetto reverenziale, tanto che il poeta e filosofo greco Senofane (580-490 a. C.) notava con amarezza che Omero ed Esiodo avevano ricolmato gli dei di colpe e di vizi propri degli uomini. La presenza degli dei in tutte le fasi dei combattimenti descritti nel poema condiziona le sorti dei contendenti. Come in un agone, che dovrà concludersi con un vincitore, gli dei sono così schierati, in modo da indirizzare a loro piacimento le azioni militari ed esserne arbitri. Dalla parte degli Achei intervengono di volta in volta Poseidone, Atena, Hera, Hermes, Efesto. Si battono a favore dei Troiani Apollo, Ares, Afrodite, Artemide, Scamandro. La presenza degli dei si può rivelare in modo indiretto attraverso i sogni o sotto forma di presagi, o in modo diretto, come Atena che frena la mano di Achille, pronto a sguainare la spada e colpire l’arrogante Agamennone. Senza la partecipazione degli dei, tutta la tessitura della guerra di Troia si sfalderebbe. Gli dei esprimono i medesimi atteggiamenti di amore e odio, di ira e di compassione che appartengono agli essere umani, dai quali si differenziano, non certo per la loro trascendenza, ma per la loro eterna giovinezza. Sono, insomma, la proiezione della stessa società umana con la loro gerarchia, le loro preferenze, le loro sfere d’influenza.
Il libro III è dedicato al duello tra Paride e Menelao. Paride, 'bello come un bel dio', si presenta con pelle di pantera sopra le spalle, con arco ricurvo, spada e due lance a punta di bronzo. Menelao avanza al pari di un 'lion che visto/un cervo di gran corpo o capriolo/ spinto da fame a divorarlo intende. Lo scontro tra i due è molto importante, perché l’esito dovrà decidere le sorti della guerra e il possesso di Elena. I due eserciti assistono trepidanti e speranzosi nella prossima fine della guerra. A questo punto appare sulla scena per la prima volta Elena, che in tutta la sua smagliante bellezza , si reca sulla torre presso le porte Scee, per seguire le fasi del duello. La divina bellezza di Elena seduce i vecchi guerrieri troiani, che per la loro età ormai contribuiscono al bene della patria con la loro saggezza. Essi non disprezzano la fedifraga, ma sono colti dall’ammirazione di cotanto fascino, posponendo per un attimo la salvezza della loro terra alla bellezza incantevole della donna, figlia di Zeus. ' Come vider venire alla lor volta/ la bellissima donna i vecchion gravi,/ alla torre seduti, con sommessa/ voce tra lor venian dicendo: - In vero/ biasimar i Teucri né gli Achei si denno,/ se per costei sì diuturne e dure/ sopportan fatiche. Essa all’aspetto/ veramente è dea. (l. III 201-208).  Lo stesso re Priamo, nei confronti di Elena, mostra una tenerezza paterna : ' Vieni, Elena, vien qua, figlia diletta,/ siedimi accanto, e mira il tuo primiero/ sposo e i congiunti e i cari amici. Alcuna/ non hai colpa tu meco, ma gli dei,/ che contro mi destar le lagrimose/ arme de’ Greci' (l. III 212-217). Con toni accorati, Priamo si volge ad Elena e giustifica la sua azione, come se fosse stata ispirata dalla volontà dagli dei. Il suo sguardo su Elena è però diverso da quello dei vecchi Troiani, è quello di un genitore che giustifica i comportamenti dei figli ed è pronto ad accettare il corso del destino. Elena si commuove dinanzi al paterno affetto del vecchio re e di rimando : 'Suocero amato, la presenza tua/ di timor mi riempie e di rispetto./ Oh scelta una crudel morte m’avessi/,/ pria che l’orme del tuo figlio seguire,/ il marital mio letto abbandonando,/ e i fratelli e la cara figlioletta/ e le dolci compagne! Al ciel non piacque;/ e quindi è il pianto che mi strugge' (l. III 225-232). Nella risposta di Elena si avverte il tormento della colpa, che le parole affettuose del suocero rendono più amaro; da qui la sua tenera risposta al vecchio Priamo, che l’ha accolta nella sua reggia come sposa di suo figlio. Nel mito di Elena è questo il primo tentativo di discolpa della moglie di Menelao, il cui turpe comportamento nei confronti dello sposo è attribuito al volere degli dei dallo stesso Priamo. Successivamente il poeta della Magna Grecia, Stesicoro (VI sec. a. C.), rivisita la leggenda, sostenendo addirittura la fedeltà di Elena e precisando che a Troia non era andata insieme con Paride la figlia di Leda ma un suo eidolon, un simulacro vivente, mentre la vera Elena sarebbe vissuta alla corte di Proteo, in Egitto. Il tema sarà ripreso da Euripide, nella tragedia Elena. Il tragediografo presenta la moglie di Menelao triste e sconfortata per i tanti lutti che le si attribuiscono da parte dei Troiani e dei Greci, ma allo stesso tempo rivendica la sua incolpevolezza: ' E molte vite sono morte per me sullo Scamandro,/ e io, che pure tanto ho sofferto, sono maledetta,/ ritenuta da tutti traditrice di mio marito/ e rea d’aver acceso una guerra tremenda per la Grecia' (Euripide, Elena vv. 5°2-505). Elena si presenta come una figura complessa, vittima della sua folgorante bellezza, che ha indotto Paride ad assecondare i disegni di Afrodite. Avverte lei stessa di essere manovrata da una entità superiore, ma ciò non toglie che si senta responsabile dei tanti lutti. Priamo, vecchio saggio, genitore prolifico di cinquanta figli, l’assolve e con lui anche Ettore le si rivolge con benevola indulgenza, considerando le difficili condizioni umane e psicologiche, in cui la bellissima donna è costretta a vivere, lontana dalla sua terra, dai suoi familiari, dalla figlia Ermione e dallo stesso marito, Menelao, verso cui si sente in colpa e per il quale di tanto in tanto prova sospirosa nostalgia. Elena, seppure sia stata attratta dalla bellezza del giovane Paride, pure non lo stima, lo considera un vigliacco, al quale non risparmia il suo acerbo biasimo dopo l’esito del duello con Menelao, dalle cui mani fu sottratto dall’intervento di Afrodite: 'E così riedi dalla pugna? Oh fossi/ colà rimasto, per le mani anciso/ di quel gagliardo un dì mio sposo! E pure/ e di lancia e di spada e di fortezza/ ti vantasti più volte esser migliore./ Fa’ cor dunque, va’, sfida il forte Atride/ alla seconda singolar tenzone./ Ma t’esorto, meschino, a ti star queto/ né nuovo ritentar d’armi periglio/ col tuo rivale, se la vita hai cara' ( l. III 567-576). Passione e disprezzo agitano l’animo di Elena. Eppure, il personaggio omerico trova sempre la giustificazione delle sue scelte contraddittorie, dei suoi impulsi e delle sue emozioni nella decisione divina, alla quale nessun umano può sottrarsi. Il che lo salva dall’angoscia, in quanto rinunzia all’esercizio del libero arbitrio. Il logos non ha la forza di sottrarsi alla legge naturale né alle scelte che giungono dall’Olimpo. Nel caso di Elena, è la divinità, Afrodite, che si serve dell’avvenenza della donna per obnubilare le coscienze, ridurre ogni freno inibitorio dei due amanti, affinché affermi se stessa e trionfi la sua vanità. Paride e d Elena diventano, quindi, strumenti inconsapevoli di un giuoco più grande delle loro forze. L’attrazione fisica, soprattutto nei giovani, non risponde al logos ma solo alla legge di natura, o all’astuzia della natura, che si serve della passione e degli istinti per perpetuare se stessa. Ne è prova l’atteggiamento contraddittorio dei vegliardi, che per un momento  sono disposti a giustificare i tanti mali della guerra, conquistatati dalla divina bellezza di Elena, ma, data la loro età, finisce col prevalere il logos e non sono disposti a soccombere fino al punto d’anteporre il fascino di Elena alla salvezza della patria: 'Veramente è dea. Ma tale ancora/ via per mar se ne torni, e in nostro danno/ più non si resti, né dei nostri figli' (l. III 208-210). Dunque, la bellezza di Elena rimane ambigua e fascinosa, luminosa e tragica allo stesso tempo, paradigma dell’esistenza umana, oscillante tra  pathos e logos, tra eros e thanatos. Immagine riferita a: Il prof. Antonino Tobia rivisita i poemi classici alla Libera Università
Dinanzi all’ambiguo rapporto che contraddistingue il legame di Elena e Paride, l’amore di Ettore ed Andromaca acquista l’intensità di un amore coniugale profondo nei sentimenti, luminoso nei valori ch’esso vuole testimoniare. Anche se la guerra di Troia è solo una invenzione poetica, secondo uno dei maggiori studiosi della società omerica, Moses I. Finley, i poemi omerici, come sostiene Eva Cantarella, rappresentano una sicura testimonianza della condizione della donna presso i Greci, un documento che nella sua globalità è lo specchio della società greca nei secoli tra la fine della società micenea e l’VIII secolo[3]. E il rapporto coniugale tra Ettore e Andromaca, così come è presentato da Omero nel libro VI dell’Iliade, fornisce un esempio di  relazione umana tra marito e moglie, che non trova riscontro in altri luoghi del poema. Tra mogli che tradiscono, amanti e concubine, la figura femminile che presenta una maggiore umanità nel paesaggio violento della guerra di Troia è certamente quella di Andromaca, nel suo ruolo di madre e di sposa. Omero vi dedica gli ultimi versi del libro VI, che il Monti caricò di una intensa venatura romantica: la donna col figlioletto in braccio corre incontro al marito, Ettore, per distoglierlo dalla battaglia imminente: ' Corre verso le mura a simiglianza/ di forsennata, e la fedel nutrice/ col pargoletto in braccio l’accompagna'.  Questa è la risposta che la fida dispensiera della casa di Ettore dà all’eroe , che era corso a salutare la sposa e il piccolo Astianatte prima di scendere in campo. Ripercorrendo di gran corsa la strada già fatta, presso la torre delle porte Scee, che dà accesso al campo di battaglia, Andromaca  incontra il marito e disperata, col volto bagnato di lacrime lo supplica per la mano stringendolo, e per nome in dolce suono/ chiamandolo: '  Pietà del figlio né di me tu senti, / crudel, di me, che vedova infelice/rimarrommi tra poco, perché tutti/ di conserto gli Achei contro te solo/ si scaglieranno a trucidarti intesi;/ e a me fia meglio allor, se mi sei tolto, l’andar sotterra. Di te priva, ahi lassa!/ch’altro mi resta che perpetuo pianto?' (l.VI, 486-573 passim trad. Monti).
Ettore non ascolta le parole struggenti della povera donna e scenderà anzitempo nell’Ade. Alla donna, infatti, la società del tempo negava il diritto alla parola e non le  riconosceva alcun ruolo nella gestione dei rapporti sociali ndar sotterra. lieranno a trucidarti intesi;/ e a me fia meglio allor, se mi sei tolto, l’e politici. Ettore, che pure appare un marito premuroso e un padre molto tenero, non indietreggia dinanzi alle parole accorate di Andromaca, sebbene  il triste presentimento della tragica fine, che incombe su di lui e la sua gente, gli spenga il sorriso che aveva accennato alla vista del suo bambin leggiadro come stella. Ettore è figlio della società e della cultura del suo tempo, in cui i ruoli dei due sessi sono completamente divisi. A lui spetta combattere, difendere la patria, ricoprirsi di gloria, affinché anche dopo la morte il suo ricordo possa risplendere nell’Olimpo degli eroi e il figlio e la moglie possano conservarne la memoria con orgoglio e fierezza. Per l’eroe esporsi in prima fila è legge suprema. In quanto duce, poi, deve condividere i pericoli insieme con i suoi guerrieri nel campo di battaglia, dove maggiormente ferve il combattimento. Una scelta diversa lo esporrebbe allo spregio dei Troiani e sarebbe considerato un codardo dalle nobili matrone se evitasse i cimenti della battaglia. Eppure egli è presago dell’imminente caduta di Troia e senza alcuna reticenza, ma col cuore trafitto dal dolore, confessa alla consorte che, della triste fine della sua patria, l’accora soprattutto il pensiero della schiavitù cui lei sarebbe assoggettata (l. VI. 574-636). Se il dovere lo chiama ai pericoli della battaglia, al contrario Ettore ricorda ad Andromaca, di cui pure si gloria d’essere ' il florido sposo' (l. VIII. 190),   quali sono i suoi compiti e le mansioni cui deve attendere: 'Or ti rincasa, e ai tuoi lavori intendi,/ alla spola, al pennecchio, e delle ancelle / veglia su l’opre; e a noi, quanti nascemmo/ fra le dardanie mura, a me primiero,/ lascia i doveri dell’acerba guerra' (l. VI. 649-653). Il valore, l’onore, la fedeltà alla patria, la gloria sono i punti cardinali di un’esistenza eroica, che accetta come contropartita anche la morte precoce, purché il suo nome rimanga a brillare tra le urne dei forti, che bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta. Così il Foscolo, che chiuderà il suo carme proprio con il ricordo di Ettore: E tu onore di gloria Ettore avrai, finché il sole risplenderà sulle sciagure umane. La donna è, al contrario,  esclusa dalla vita sociale e dalle scelte politiche. Essa è destinata a vivere all’interno delle mura domestiche, appagata dagli affetti familiari e dalla conduzione della casa e dell’educazione della prole.
Andromaca, l’eroina troiana, figlia del re di Tebe, come Elena, giunse a Troia dal mare. Ma la moglie di Menelao aveva abbandonato la sua terra e i suoi affetti, compresa la figlia Ermione, vuoi per gli intrighi divini, vuoi perché rapita dall’eros. Al contrario, Andromaca era stata data in sposa con ricca dote dal padre ad Ettore e non ha più una patria, né la famiglia d’origine, vittima della feroce e disumana violenza del figlio di Peleo e Teti, la cui efferatezza aveva fatto scendere anzitempo nell’Ade suo padre e i suoi sette fratelli, mentre ne aveva reso schiava la madre, anch’essa morta improvvisamente nell’accampamento greco, dove Achille l’aveva condotta a forza.  Elena, poi, pur rispettata dal suocero e dal cognato Ettore, non amava la terra che l’aveva accolta, non pensava di creare un nuovo nucleo familiare accanto a Paride, che disprezzava per la sua codardia, non aveva dimenticato né il marito né i suoi familiari. Andromaca, invece, era diventata a tutti gli effetti una nobil donna troiana, aveva sposato l’eroe e il principe più illustre della terra che l’aveva accolta, aveva dato allo sposo l’erede desiderato, non poteva volgere lo sguardo indietro, perché lì non avrebbe trovato altro che il deserto. Tutta la sua vita restava ancorata al destino di Troia e alla vita del suo caro sposo, Ettore.
La trama musicale dell’incontro tra Ettore ed Andromaca è intessuta di malinconia, tristezza, rimpianto. Il tono è decisamente elegiaco nel richiamo alle cose più care: amore della città, della casa e tutte le cose care e belle della città e della casa costruite e raccolte da varie generazioni, le larghe strade, i ricchi palazzi, le arche preziose, le stanze odorose, i pepli le vesti gli arredi gli ori e gli argenti accumulati e riposti; affetti domestici e cittadini tanto più acuti e dolenti ora che sono bagnati di pianto[4].
Il tono elegiaco che attraversa l’incontro di Ettore ed Andromaca è anticipato nel libro VI dallo scontro mancato tra Glauco, comandante dei Lici, alleati dei Troiani,  con il greco Diomede. I due eroi, avendo scoperto che i loro nonni erano stati legati da vincoli di amicizia, si scambiano le armi, sancendo, in questo modo, il valore dell’ospitalità, così importante nel mondo greco, dove lo stesso padre degli uomini e degli dei, Zeus, era considerato protettore degli ospiti. Dopo la rassegna di uccisioni e di tante vittime spente dalla furia omicida, l’esultanza guerresca cede il posto ad una tonalità diversa, quella malinconica delle parole di Glauco, nipote del mitico Bellerofonte, che così risponde al suo avversario Diomede: ' Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?/ come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;/ le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva/ fiorente le nutre al tempo di primavera;/ così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua'. (l. VI 145-149 vers. Rosa Calzecchi Onesti). È un  perfetto preludio elegiaco per introdurre l’incontro di Ettore ed Andromaca.
Dopo il rientro in campo di Ettore, la sua sfida viene raccolta da Aiace Telamonio. Sono gli dei, Artemide-Minerva dalla parte dei Greci e Febo-Apollo che parteggia per i Troiani a decidere che  le numerosi stragi di guerrieri in quella giornata cessassero e che le sorti della decennale guerra venisse affidata ad una singolar tenzone tra l’eroe più forte dei Troiani, che in quel momento continuava  a fulminare col suo brando i guerrieri achei e un eroe del campo greco tra i tanti che si dichiaravano pronti a sfidare il figlio di Priamo. La sorte, ma anche qui non è improbabile l’intervento divino, sceglie il grande Aiace Telamonio, tra la gioia degli Achei, che si auguravano una tale scelta: ' Di spendid’armi frettoloso intanto/ Aiace si vestiva; e poiché tutte/ l’ebbe assunte dintorno alla persona/, concitato avviossi, e camminava/ quale incede il gran Marte allor che scende/ tra fiere genti stimolate all’armi/ dallo sdegno di Zeus e dall’insana/ roditrice dell’alme empia contesa'. (l. VII, 249-256) Omero ricorre al paragone con lo stesso dio della guerra, Marte, per mettere in maggiore evidenza la marziale fierezza di Aiace, spinto dal pungente desiderio della sfida e da furore bellicoso. Tuttavia, scorre sotto traccia la condanna del poeta nei confronti della violenza della guerra, che agita glia animi degli uomini per l’intervento dello stesso Zeus e della terribile Contesa,  che il poeta ama personificare, come per gli altri atteggiamenti umani. I Greci, che non dubitavano dell’esistenza di Omero, gli riconoscevano di aver dato loro, prima ancora della Teogonia di Esiodo, la formulazione del mondo divino e la conoscenza singola di ciascuna divinità, il cui intervento condiziona le vicende umane. E l’intervento divino non si fa attendere neppure in questo duello, che sarebbe stato decisivo per le sorti della decennale guerra: Ettore, infatti, sarebbe stato sopraffatto dallo 'smisurato' Aiace, se non fosse intervenuto lo stesso Apollo in suo aiuto. La conclusione della terribile sfida, comunque, è determinata dal sopraggiungere delle tenebre ed ha un epilogo cavalleresco, tipico dei poemi di età umanistico-rinascimentale: dopo aver dato prova della loro forza e del loro valore, prima di separarsi, Ettore rivolge parole di ammirazione al suo avversario e gli fa dono della sua spada. Aiace ricambia e offre ad Ettore la sua bella cintura. O gran virtù dei cavalieri antichi! verrebbe da dire con l’Ariosto, dinanzi a questa scena di cortese fair play.
A proposito di tale episodio, Luciano Canfora suggerisce una lettura alquanto attenta. Infatti, come nota lo studioso, sebbene nell’Iliade prevalgano le scene di guerra o episodi indirettamente ad essa collegati, come l’intervento divino nel bel mezzo della battaglia, i sacrifici, la divisione del bottino, la descrizione delle armi, vi si riscontra altresì una messe di informazioni che riguardano altri aspetti della vita sociale, dei rapporti umani, del lavoro. Sicché si può pensare che Omero tenda a dare un’immagine più arcaica delle scene di lotta, mentre attinge all’esperienza da lui vissuta quando, come nella presentazione dello scudo di Achille (XVIII, 668-854), descrive scene di pace con conviti e banchetti nuziali, quadri relativi alla seminazione, mietitura e vendemmia, sfondi di verde pascolo con mandrie e cori di giovani in festa. Tale mescolanza tra antico e recente è, poi, denunciata dalla fattura dello scudo, intarsiato con vari metalli secondo la tecnica micenea, ma costruito con una tecnica che ricorda la lavorazione del ferro, per l’impiego di mantici e fornaci[5].  Senza la partecipazione degli dei alle vicende umane, non si comprenderebbe l’opera di Omero. Anche nel libro XXII Omero richiede l’intervento divino per introdurre la miseranda fine di Ettore: il dio Apollo, interviene in aiuto dei Troiani, atterriti dall’immane ferocia del Pelide ed assunta la figura del troiano Antenore, si fa inseguire dall’eroe acheo, ignaro dell’inganno, per favorire la fuga di Troiani dal campo di battaglia. Tutti trovano riparo dentro le mura della città. Solo Ettore rimane fuori, esposto alla furia vendicativa di Achille. Il padre degli dei si duole del destino che incombe su l’eroe troiano e pesa sulla sua bilancia aurea le sorti dei due guerrieri. Purtroppo il piatto della bilancia su cui è posta la vita di Ettore declina in basso. È la fine. Nessun dio può far volgere indietro lo stame cui è attaccata la vita e il destino dell’uomo e che le Parche filano e recidono.
L’antropologa Ruth Benedict, in occasione della Seconda Guerra Mondiale, aveva studiato i modelli di cultura giapponese ed aveva elaborato la cosiddetta 'cultura della vergogna[6]. Questo modello di cultura si fonda sul consenso e la stima sociale, per cui prova l’onta della vergogna chi assume comportamenti criticabili dal proprio gruppo, perché giudicati deplorevoli. Tale modello, elaborato dagli antropologi americani, è stato adattato anche al comportamento degli eroi greci. L’eroe omerico, infatti, non poteva e non doveva fallire e, se ciò accadeva, il fallimento veniva attribuito all’intervento di una volontà divina. Solo così si sentiva sollevato dal peso della vergogna. L’eroe omerico doveva mostrarsi forte e coraggioso, risoluto nell’affrontare i pericoli, convinto che una morte gloriosa è preferibile ad una vita disonorevole. Per la sua viltà il bello e affascinante Paride si copre di vergogna agli occhi degli altri guerrieri e del fratello Ettore, in particolare, ma anche diventa spregevole per la stessa Elena, il cui modello di eroe era quello greco dell’uomo kalòs kai agathòs, bello e valoroso.
Due altre donne intervengono nell’azione del poema omerico: Cassandra ed Ecuba. Cassandra è la figlia di Priamo e di Ecuba, rimasta famosa per le sue doti profetiche, sebbene nei poemi omerici non si faccia menzione di tale virtù. Secondo il mito, Cassandra era la più bella delle figlie di Priamo. Di lei si innamorò Apollo, che le concesse il dono della profezia, ma essendo stato respinto, la punì in modo che le sue profezie non venissero mai credute vere. Il nome di Cassandra compare per la prima volta nel libro XIII ed è presentata da Omero come la più bella figlia di Priamo. Di lei si era innamorato Otrioneo, che aveva promesso a Priamo di sposarne la figlia senza alcuna dote e di aiutarlo a cacciare gli Achei da Troia. Purtroppo, il fato volle che lasciasse anzitempo la sua vita in battaglia, fulminato dalla lancia di Idomeneo. Nel libro XXIV Omero non si limita a ribadire la bellezza di Cassandra, splendente come l’aurea Afrodite, ma a lei riconosce il privilegio di avere avvistato per prima il carro sul quale il padre Priamo riportava entro le mura di Troia il corpo esanime del fratello Ettore. Lo vide e gemendo gridò per tutta la città: ' Venite a vedere Ettore, Troiani e Troiane,/ se mai gioiste, quando vivo tornava dalla battaglia;/ perché era gioia grande alla città e a tutto il popolo'. Il cadavere di Ettore viene, quindi, portato nella sua illustre dimora e qui adagiato su un letto lavorato con trafori. Attorno al feretro si dispongono i cantori, che intonano lamentosi treni, che accompagnano il pianto delle donne. Tra queste, la più addolorata è Andromaca, che tiene stretta tra le braccia la testa del suo Ettore e dà sfogo al suo lamento per prima : 'Oh sposo, troppo giovane lasci la vita e me vedova/nella tua casa abbandoni: non parla ancora il bambino/ che generammo tu ed io, disgraziati, e non penso/ che verrà a giovinezza… Prima la città intera/ sarà distrutta, perché tu sei morto, il suo difensore, / tu che la proteggevi, le spose salvavi e i piccoli figli,/ Esse presto andran via, sulle concave navi,/ e io con loro: tu , bimbo, seguirai/ me, là dove indegne fatiche dovrai sopportare/ penando sotto un duro padrone. Oppure un acheo/ ti scaglierà, sollevandoti, giù dalle mura – orribile fine! -/ irato perché ,forse, Ettore gli uccise un fratello,/ o il padre, o un figlio; moltissimi Achei/ sotto la forza d’Ettore morsero la terra infinita./ non era dolce, no, il padre tuo nella carneficina paurosa./ Per questo lo piange il popolo per la città./ Ah! Maledetto pianto e singhiozzo ai genitori hai lasciato,/ Ettore, ma soprattutto a me restano pene amare: /tu non m’hai tesa la mano dal letto, morendo,/ non m’hai detto saggia parola, che sempre potessi/ avere presente, notte e giorno, tra il pianto!'. (l. XXIV , 725-743 vers. Rosa Calzecchi Onesti). Andromaca nel suo lamento riprende i motivi pronunciati durante l’ultimo incontro con lo sposo alle porte Scee. Più di ogni altra sventura, teme per la sorte del figlioletto Astianatte[7], che possa essere oggetto di vendetta di qualche acheo, quando le mura di Troia crolleranno. Alle strazianti parole di Andromaca si accompagnano i lamenti della madre dell’eroe, Ecuba, a cui la disperazione e l’inesauribile affetto di madre suggeriscono parole di profonda intensità drammatica: Ettore, fiore della gente troiana, giace come un tenero fiore appassito ai cocenti raggi del sole: ' Ed ora tutto fresco mi stai nella casa, ed intatto,/ simile in tutto a un uomo che Apollo dall’arco d’argento/ abbia con le sue frecce benigne colpito ed ucciso'. (vers. di Romagnoli). Di diverso tenore è il terzo lamento, quello di Elena, la bellissima straniera, vittima della rivalità tra le dee, che da vent’anni è lontana dalla sua terra e dai suoi affetti. La sposa di Menelao piange Ettore come il cognato amico, che riusciva a calmare le ire delle donne troiane contro di lei, verso cui usava sempre parole dolci: 'Così piango te e me, sciagurata, afflitta in cuore:/ nell’ampia Troia più nessun altro verso di me/ è buono, è amico; tutti m’hanno in orrore'. (l. XXIV, 773-775 vers. Rosa Calzecchi Onesti). Il lamento di Elena è un bellissimo omaggio all’umanità di Ettore, che appare come un eroe generoso, pronto a difenderla fra gente che la odia e la maledice. La morte del cognato le fa sentire ancora più grave la responsabilità del folle atto commesso, fuggendo con  Paride e più vivo avverte ora il rimorso di tutti i mali causati alla gente troiana e alla casa di Priamo.
Il cadavere di Ettore straziato dalla ferocia di Achille, desideroso di vendicare l’amico Patroclo, ucciso da Ettore, è stato riportato dal padre Priamo entro le mura della sua città per celebrare i solenni funerali dovuti al grande eroe. Gli eroi sono cari a Zeus e perciò, ancora una volta, sarà il suo intervento a muovere l’azione. Così convoca Teti, la madre di Achille, affinché convinca il figlio a cedere al vecchio Priamo, che fa  guidare nel campo acheo dal dio Ermes, il corpo esanime di Ettore. Dinanzi alle implorazioni e alle preghiere del genitore, che gli ricorda il vecchio padre Peleo,  Achille rabbonisce il suo animo, accetta il riscatto e la brama di vendetta cede il posto alla consapevolezza del comune destino degli uomini, vinti e vincitori. 
Alcuni critici, come Wilamowitz, sono del parere che il XXIV libro sia stato aggiunto più tardi da un poeta, che esprime un grado di civiltà diverso e valori eticamente nuovi rispetto a quanto l’epos omerico aveva nei libri precedenti cantato. Secondo il critico tedesco, l’originario poema si sarebbe concluso con la morte di Achille per mano di Paride. Al di là di ogni questione filologica, l’Iliade è la prima opera di poesia donata all’umanità da un poeta che ha voluto cantare la storia e il destino dell’uomo. Il libro XXIV, con la morte di Ettore e  l’atteggiamento pietoso di Achille, corona il passaggio dalla barbarie alla civiltà.    
Trapani, 28.X.2011                                                                         Antonino Tobia


Immagine riferita a: Il prof. Antonino Tobia rivisita i poemi classici alla Libera Università

 

 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 28 Ottobre 2011 nella categoria Relazioni svolte