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Carlo Lorenzini ed Edmondo De Amicis nella conferenza del prof.Tobia

Antonino Tobia ha relazionato sul contributo della letteratura nell'edificazione del cittadino italiano dopo l'Unità

Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato

Il contributo della letteratura nell’edificazione del cittadino italiano dopo l’Unità

Il 18 marzo 1861 a mezzodì 101 colpi di cannone annunciarono in tutte le città della Penisola la proclamazione del Regno d’Italia. L’Italia era restituita al proprio retaggio e si avviava a diventare la nazione auspicata dal Manzoni nell’ode Marzo 1821, una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor.
La penna aveva contribuito insieme con le armi a fare l’Italia e a diffondere tra le nuove generazioni la consapevolezza di appartenere ad una stessa patria, seppure con diverse identità, che non avrebbero impedito  negli anni a venire la formazione di un solo popolo.
'Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani'. Sarebbe quest’ultima frase, tratta dalla Prefazione ai Miei ricordi di Massimo d’Azeglio all’origine del motto : Fatta l’Italia, bisogna far gl’Italiani.    
Immagine riferita a: Carlo Lorenzini ed Edmondo De Amicis nella conferenza del prof.TobiaDopo più di un secolo e mezzo dall’Unità, dopo due conflitti mondiali, dopo il ventennio fascista, dopo la triste esperienza del fenomeno Mani pulite, dopo un ventennio che ha portato il nostro Paese sull’orlo di un baratro economico, politico e sociale, questa nostra Patria si presenta ancora piena di contraddizioni e di tensioni laceranti e non riesce a darsi un assetto veramente democratico e liberale, nel rispetto delle istituzioni parlamentari, della distinzione dei poteri e dello spirito della Carta Costituzionale. Quella che è stata la quinta potenza industriale nel mondo fino agli anni ‘80 è costretta a svendere le sue industrie agli stranieri, a provare l’onta di classificarsi tra i Paesi con il più basso tasso di educazione e d’istruzione, ad essere richiamata aspramente per non sapere gestire la giustizia, il suo territorio, il suo immenso patrimonio artistico. Ricorrendo all’efficace immagine dantesca, l’Italia mostra le sembianze di un’inferma ' che non può trovar posa in su le piume/ ma con dar volta suo dolor scherma'. Chi più soffre in tali condizioni è il popolo italiano, il quale, orribile a dirsi, in gran parte, pare preso da una masochista voluptas dolendi, e non riesce a difendere i propri diritti attraverso l’esercizio della democrazia e a scegliere una classe politica idonea a risollevare le sorti del nostro Paese.
L’unità politica, raggiunta dall’Italia nel marzo del 1861 e completatasi con la prima Guerra mondiale, portava con sé una più intensa circolazione di idee e di parole, ma la distanza fra il nord e il sud restava grandissima e fortissime rimanevano anche le differenze sociali e culturali fra le classi sociali. Non furono sufficienti i progressi dell’istruzione elementare nei primi decenni del Regno. L’obbligo dell’istruzione dei bambini di oltre 6 anni venne sancito dalla legge Coppino nel 1877 con l’ingresso della Sinistra storica al governo. L’onere dell’istituzione scolastica era però a carico dei Comuni e non tutti erano nelle condizioni di sopperire alle spese dell’istruzione obbligatoria. Da qui l’importanza della diffusione di una letteratura per l’infanzia sia per i suoi risvolti pedagogici sia per la diffusione della lingua italiana. Così negli anni in cui si svolgeva l’esperienza degli Scapigliati e si affermava la letteratura verista come Verga e Capuana, si diffondeva una produzione letteraria semplice ed accessibile ad un vasto pubblico. Si trattava di una narrazione semplice, realistica, che sulla scia del modello manzoniano, affrontava i problemi della vita e della realtà quotidiana con una vocazione pedagogica indirizzata alla diffusione dei valori più importanti: l’amor di patria, il senso del dover, la centralità della famiglia e della istruzione. Si diffondeva, così, una narrativa 'media', che il Ferroni considera 'popolare', in quanto si rivolgeva con propositi educativi e formativi ad ampi settori di un pubblico borghese e piccolo-borghese, ma anche a quanti con difficoltà volevano imparare a leggere e a scrivere. Fatta l’Italia, insomma, bisognava fare gli Italiani, il che significava scoprire l’etica del lavoro, il valore della comunità, l’importanza dello studio, l’onestà della vita, il senso della misura, il ruolo dello Stato, l’esigenza di giustizia. Tuttavia, non era facile la circolazione dei libri, sia per l’alto tasso di analfabetismo, sia per la predominanza del dialetto, data la divisione linguistica che affondava le sue radici nella lunga storia italiana. A Milano come a Roma, per esempio, le classi aristocratiche si rifiutavano di convertirsi  alla nuova lingua comune, che consideravano priva di naturalezza e usavano la lingua regionale come salvaguardia della loro identità. Nel Meridione le classi baronali continuavano ad usare il dialetto facendone una sorta di scudo contro il nuovo che avanzava. Al contrario, la diffusione della lingua comune appariva utile soprattutto ai ceti piccolo-borghesi, ai commercianti e agli artigiani, per i quali la padronanza della lingua corrispondeva al possesso di un nuovo passaporto all’interno del  Paese. Lo Stato italiano incontrava notevoli difficoltà a favorire e programmare la diffusione della lingua in una nazione che sfiorava oltre l’80% di analfabetismo nelle regioni meridionali e andava al di là del 50% nelle regioni del centro e del nord. Emilio Broglio, ministro della Pubblica Istruzione dal 1867 al 1869, aveva nominato una commissione, presieduta dal Manzoni, che avrebbe dovuto affrontare i problemi dell’unificazione linguistica, ma con carsi risultati.
Nell’arco di trent’anni, comunque, la diffusione dell’italiano poté indirettamente espandersi grazie ai mutamenti socio-ambientali, determinati dai processi economici, sociali e istituzionali. Tra questi : 1) l’emigrazione all’estero, che raggiunse la media annua di circa 616.000 unità nel periodo 1900-1914, mentre dagli anni ‘70 agli ultimi decenni del XIX secolo già un milione e mezzo di italiani avevano varcato i confini verso l’Europa  e i paesi transoceanici. 2) le migrazioni interne con Il fenomeno dell’urbanesimo che si accompagnò al processo di industrializzazione e all’abbandono delle campagne col trasferimento di milioni di meridionali dal sud al nord in cerca di lavoro nelle città del cosiddetto 'Triangolo industriale' Genova-Torino-Milano, alla ricerca di condizioni di vita più dignitose ( nel Mezzogiorno i salari agricoli erano rimasti ai livelli del secolo precedente. 3) la diffusione della burocrazia, che per i rapporti ufficiali doveva servirsi dell’italiano. 4) la diffusione della stampa, che dopo l’Unità poteva rivolgersi ad un vasto pubblico, avviava un processo di omologazione linguistica e creava un modello di comunicazione rapido meno letterario e retorico. 5) il servizio di leva obbligatorio, che mescolava i diversi dialetti della Penisola. 6) la triste esperienza della Grande Guerra che costrinse milioni di giovani soldati di ogni parte d’Italia ad imparare a comunicare in una lingua comune. 
Immagine riferita a: Carlo Lorenzini ed Edmondo De Amicis nella conferenza del prof.TobiaAll’edificazione del nuovo cittadino italiano, soprattutto quello della piccola e media borghesia, contribuì l’incontro della stampa con alcuni scrittori di feuilleton. Si trattava di romanzi popolari di appendice a carattere letterario con personaggi fortemente caratterizzati nel bene e nel male, che nelle nuove generazioni istillavano un sentire e valori morali comuni, col trionfo finale dei buoni sentimenti. Nel 1881 Carlo Collodi pubblicò a puntate sul 'Giornale per i bambini la 'Storia di un burattino, poi ampliato in volume nel 1883 col titolo di Le avventure di Pinocchio. Collodi aveva cominciato a scrivere la Storia di un burattino senza grande entusiasmo, come risulta dalla lettera che accompagnava il manoscritto inviato all’editore Biagi :' Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene, per farmi venire la voglia di seguitarla'.
Questa bambinata divenne il libro più celebre e più popolare di tutta la letteratura italiana del secondo Ottocento.
Carlo Lorenzini nacque a Firenze il 24 novembre 1826, primogenito di dieci figli. Sei dei suoi fratelli morirono in tenera età. La madre, Angelina Orzali, diplomata maestra elementare, faceva la cameriera presso i marchesi Ginori; il padre, debole di carattere e fragile di salute era cuoco presso la stesa nobile famiglia. Dopo un breve periodo trascorso in seminario presso i Padri Scolopi, decise di seguire la sua vera vocazione: il giornalismo. I primi quarant’anni della vita di Collodi furono animati dagli ideali risorgimentali: nel ’48, con i  volontari toscani, prese parte alla Prima Guerra d’Indipendenza tra le file dei mazziniani, combattendo a Curtatone e Montanara; nel ’59 partecipò alla Seconda Guerra d’Indipendenza, arruolatosi in un reggimento piemontese (Novara). Nel 1860 per incarico del governo provvisorio toscano scrisse un pamphlet, Il signor Albéri ha ragione, contro un tale che aveva denigrato l’annessione della Toscana al Piemonte. In questa occasione per la prima volta si firmò Collodi. Il nome di Collodi rispondeva a quello del paese d’origine della madre, Collodi, in Valdinievole, presso Pistoia. 
Dopo l’Unità d’Italia, Collodi trascorse una vita da scapolo come impiegato della Prefettura di Firenze, frequentatore assiduo del Caffè Michelangelo, e impegnato nella sua attività di giornalista e di scrittore, non più polemico, quale era stato nel ’48, quando aveva fondato il giornale satirico Il Lampione, ma autore di testi al servizio dell’ edificazione di una nuova società. Iniziò la stesura di Pinocchio a puntate in età avanzata, aveva cinquantacinque anni. Ma si era già occupato della letteratura per l’infanzia con la pubblicazione di vari libri destinati alla scuola con propositi pedagogici e moralistici (Giannettino (1875), Minuzzolo (1877). Collodi aveva anticipato la figura del monello, dello studente discolo e svogliato in Giannettino, il ragazzino impertinente che, rivolgendosi alla madre, diceva: 'Se fossi stato io l’inventore del lunario, avrei messo quattro domeniche e tre giovedì per ogni settimana!'. Infatti, le scuole al tempo di Collodi facevano vacanza oltre la domenica anche il giovedì. Per tutti G. era una peste e anche il gatto di casa se la dava a gambe quando lo sentiva arrivare. I genitori non erano capaci di correggerlo, perché il padre non era in grado di insegnargli nulla, essendo per lo più assente nella vita del figlio. La madre era troppo remissiva, non sapeva guidarlo e non era ascoltata neppure per fargli tagliare quel ciuffo che G. si ostinava a portare sulla fronte come i bravi manzoniani. G. era anche cattivo, prendeva in giro i compagni più deboli, li offendeva sul piano fisico e sociale, appariva privo di sensibilità, al punto che, quando il padre aveva deciso di licenziare il servitore, accusandolo di un furto, egli non si era fatto avanti per ammettere lealmente le sue responsabilità. Un amico di famiglia, il dott. Boccadoro, a differenza di tutti gli altri parenti e affini che lo evitavano, aveva deciso di occuparsi dell’educazione del fanciullo, convito di riuscire ad indirizzare il monello verso un comportamento morale e sociale che ne facesse un individuo maturo e rispettoso del vivere civile. Ma l’azione educativa del Mentore non riuscì a portare sulla buona strada  G., il quale continuava a scegliere la strada sbagliata, beveva, giocava, frequentava cattive compagnie, non sapeva sottrarsi alle bugie, anche quando il suo Mentore gli faceva notare che le bugie rendono l’uomo spregevole. G. era consapevole che le sue scelte erano sbagliate, ma, allo stesso tempo, non riusciva a resistere alle tentazioni. Collodi, attraverso G., indica un modello educativo ben preciso: a nulla vale la repressione, scarsi sono i risultati di un’educazione etero-diretta, molto più efficace è l’esperienza quotidiana vissuta in ambienti e circostanze diversi. Forse era in lui presente il modello repressivo di educazione che gli era stata impartita in seminario. Il processo di crescita, suggerisce lo scrittore, deve corrispondere ad un itinerario iniziatico, che porta dal caos delle pulsioni alla profondità dei sentimenti e all’ordine della ragione, dal buio iniziale alla luce della verità. Solo questo itinerario conduce alla formazione del carattere di ogni ragazzo: conoscere fino in fondo il male, per poterlo poi superare e vincere. Il rito d’iniziazione verso l’apprezzamento dei valori morali è qui anticipato, ma diverrà più marcato in Pinocchio. Le vicende di G. si pongono, intanto, come monito ai genitori troppo assenti nella vita dei loro figli. Allo stesso tempo, Collodi sottolinea l’importanza del confronto generazionale e il ruolo dell’adulto-educatore, che l’adolescente sceglie a modello del suo comportamento. Il romanzo è uno spaccato della vita familiare e sociale della seconda metà dell’Ottocento, presentata  con realismo storico, senza cedimenti fantastici. Lo sfondo sociale è quello della media borghesia, benestante e lontana dai bisogni della povera gente.
Minuzzolo insieme a Giannettino preannunzia il capolavoro. Il carattere del monello Giannettino si sviluppa in questo romanzo del 1877. Qui il protagonista è un simpatico ragazzino sensibile e tanto curioso, che rifiuta come Giannettino l’educazione borghese. Minuzzolo è alla ricerca di una sua identità libera ed emancipata e non si lascia irretire  dall’ambigua pedagogia di chi vuole istruire divertendo, sottacendo il senso del dovere e della fatica che lo studio comporta.
Di altro tenore è il mondo in cui nasce e si muove il burattino Pinocchio, in cui al realismo dei primi romanzi si associa l’elemento fiabesco. Questo libro per l’infanzia è stato letto da milioni di ragazzi e ha contribuito alla formazione della cultura nazionale.  È la storia di un burattino di legno, di un ragazzo burattino che deve imparare a diventare uomo con le proprie forze attraverso diverse esperienze e molti dolori. Pinocchio si scontrerà con un mondo d’imbroglioni, di furbi e di stolidi; attraverserà luoghi straordinari, il Campo dei miracoli, il paese degli Acchiappa citrulli, il paese dei Balocchi. Incontrerà animali parlanti e fatine buone.  La favola è la storia di tutto un processo educativo, che mira a trasformare l’irrazionale in razionale, il caos in ordine, l’esplosione naturale degli istinti e delle passioni in comportamento civile. Tutto ciò nasconde l’aspirazione dell’autore ad una società ben regolata, giusta, educata  e rispettosa delle leggi.    
Eppure in quel suo mondo fantastico Collodi riproduce l’aria paesana della campagna fiorentina, quale si presentava alla fine dell’Ottocento. La saggezza popolare fa da sfondo anche quando i personaggi prendono le sembianze di Mangiafuoco, della Fatina dai capelli turchini, oppure del Pescecane o del Paese dei balocchi. È reale il pezzo di legno che capita nella bottega di mastro Geppetto, è fantastico che un pezzo di legno parli in un fiorentino schietto. Collodi riesce a creare un mondo fantastico, privo dei castelli e delle regge che popolano le fiabe. L’ambiente è il mondo della povera gente che vive nelle piccole case di un villaggio toscano.
'C’era una volta … - Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno'. Questo è l’incipit del racconto, con il quale l’autore prende subito le distanze dalla tradizione fiabesca e crea subito un’atmosfera domestica, socialmente ben determinata, quella in cui vivono le famiglie operaie e artigiane. La casa di Geppetto, infatti, 'era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala' e la stessa buona fata non è quella dei fratelli Grimm, ma come notò il Pancrazi, sembra piuttosto una serva del Casentino'.
Geppetto è un povero falegname, che desidera costruirsi un burattino. Ci riuscirà lavorando un semplice pezzo di legno, capitato nella bottega di un vecchio falegname, mastr’Antonio, da tutti soprannominato mastro Ciliegia per via della punta del suo naso. Il padre di Pinocchio non sarà mastro Ciliegia ma Geppetto, che sogna di dar vita ad 'un burattino meraviglioso che sappia ballare, trar di scherma e fare i salti mortali'. A differenza di mastro Ciliegia che 'cadde giù come fulminato' quando si rese conto che quel pezzo di legno parlava e rideva sotto lo scorrere della pialla – Smetti! Tu mi fai il pizzicorino sul corpo! – Geppetto non troverà nulla da ridire alle risate e alle prime mosse di Pinocchio, che vuole accudire come un figlio, mettendogli addosso un vestituccio di carta fiorita e un berrettino di mollica di pane.
Al di là dell’intento pedagogico-educativo apertamente dichiarato, Pinocchio è un personaggio assai complesso e anticonformistico. Il burattino creato da Geppetto presenta uno sfondo psicologico complicato. Esso impersona la ribellione del figlio all’autorità paterna spinto dal desiderio di conoscere il mondo, di correre verso tutte le difficoltà, gli ostacoli, gli errori attraverso i quali la tabula rasa del proprio io  (di fatto si tratta realmente di una tavola di legno) registra nuove esperienze e matura, sicché da insensibile, quale può essere un pezzo di legno, acquista una sua anima, una sua sensibilità che lo aiuterà meglio, dopo avere acquistato fattezze umane, a confrontarsi con gli altri uomini e a sfuggire a tutti quegli inganni, soprusi, false lusinghe che il burattino non era riuscito a fronteggiare. Pinocchio non può essere educato solo dal padre, è questo che Collodi ci fa capire; la famiglia è fondamentale nell’educazione dei figli, ed essa non può prescindere dalla presenza della madre, che l’autore sostituisce con la Fata turchina. Anche il sistema scolastico non è in grado di edificare in Pinocchio una coscienza civile. Collodi mette sotto accusa i sistemi educativi della pedagogia e del costume romantico-borghese dell’Ottocento italiano. La scuola non riesce ad interessare Pinocchio, che non appartiene ad una famiglia borghese  e si annoia a ricevere una forma d’istruzione che è lontana dal suo ambiente e dal suo linguaggio. Allo studio preferisce il gioco, ai doveri di figlio il divertimento, all’impegno l’ebbrezza della libertà, sfuggendo ai canoni dell’etica dei benpensanti. Seppure tra mille censure, che l’autore non nasconde, la simpatia di Collodi va al burattino scavezzacollo che contesta la cultura e la morale della società che si rivela ogni volta ingiusta e repressiva. Così essa appare nel capitolo che ha come titolo : Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e per castigo si busca quattro mesi di prigione. Il titolo è ambiguo e paradossale. Pinocchio merita il castigo, colpevole di dabbenaggine nei confronti del Gatto e della Volpe, che gli avevano fatto credere di poter diventare ricco senza lavorare: bastava che seminasse i suoi cinque zecchini ricevuti da Mangiafuoco nel Campo dei Miracoli. Ma è anche vero che la giustizia appare capovolta: in galera ci va il truffato, Pinocchio che ha denunciato il raggiro subito, e non i truffatori. Qui l’amara polemica di Collodi contro la giustizia ingiusta è evidente. L’esercizio della giustizia è affidato ad un giudice dalle sembianze di un gorilla e a dei gendarmi-mastini che esprimono efficacemente il volto violento della legge. Lo scrittore in questa pagina si fa portavoce della sfiducia contadina e popolare verso la giustizia dello Stato, secondo la quale i deboli e i diseredati sono quelli che vanno a finire in prigione, mentre i ricchi e i potenti trovano i mezzi e i modi per farla franca anche quando le loro colpe sono palesi e passate in giudicato. Insomma, il povero Pinocchio non avrebbe potuto neppure fruire dell’amnistia concessa ai delinquenti, se non si fosse dichiarato egli stesso un 'malandrino'. Tuttavia, Pinocchio non è una fiaba anti-borghese, semmai, come nota Giovanni Spadolini, la storia del burattino rappresenta una delle più potenti idealizzazioni della morale 'borghese', l’aspirazione ad una rivoluzione sociale, in cui la legge sia uguale per tutti e la società non sia lacerata dalla lotta di classe. Lo sforzo individuale di Pinocchio segna la rivalutazione del libero arbitrio che valorizza il merito e consente a ciascuno di farsi da sé, nel rispetto delle regole. Al contrario, la triste fine di Lucignolo, compagno di avventure di Pinocchio nel Paese dei balocchi, conferma che 'senza piegarsi alle regole della vita, non vi è possibilità di sopravvivere nel grande gioco del mondo'. In questo modo - nota Spadolini – Collodi era diventato uno degli interpreti più profondi della borghesia che aveva elevato il lavoro a misura della stessa dignità dell’uomo. Così le Avventure di Pinocchio, insieme con il libro Cuore, costituiranno il più saldo fondamento della pedagogia nazionale. Bisognerà aspettare gi studi di psicanalisi e la lezione di Pirandello per cogliere nell’antinomia fra il burattino e l’uomo il dramma esistenziale tra l’essere e l’apparire, l’individuo e la maschera.
Il romanzo divenne presto un classico della letteratura pedagogica. Anche il cinema si è interessato alle avventure di Pinocchio con almeno due film di cartoni animati, uno sovietico , l’altro americano di Walt Disney. Per il cinema riscosse grande successo di pubblico il film di Comencini trasmesso in cinque puntate dalla RAI nel 1974. Tra gli attori c’erano Nino Manfredi (Geppetto), Gina Lollobrigida (Fata Turchina), Ciccio e Franco (il Gatto e la Volpe). Pinocchio era rappresentato da un bambino in carne ed ossa, Andrea Balestri, che in quel periodo stava soffrendo per la separazione dei suoi genitori. Inferiore il successo di Pinocchio interpretato da Benigni. 
Molte sono state le interpretazioni politiche della favola. Fu visto come un romanzo anticlericale, anarchico, idealista. Durante il Fascismo alcuni scrittori antifascisti, tra cui Benedetto Croce, si servirono della favola del burattino per esaltare il tipo del ragazzo antieroico e la buona Italietta umbertina in cui la favola era nata.   
Tre anni dopo la pubblicazione delle Avventure di Pinocchio, Edmondo de Amicis dà alle stampe il libro Cuore. È il 1886 e lo scrittore-giornalista ha compiuto quarant’anni. Figlio di un regio banchiere dei Sali e tabacchi, Edmondo, nato ad Oneglia, studiò a Cuneo e a Torino prima di frequentare l’Accademia Militare di Modena, da dove uscì nel ’65 con il grado di sottotenente, in tempo per partecipare alla Terza guerra d’Indipendenza. Fu testimone diretto della sfortunata battaglia di Custoza del 24 giugno del 1866, in cui le truppe italiane del generale La Marmora furono sconfitte da quelle austriache dell’arciduca Alberto d’Asburgo. Contemporaneamente iniziò la collaborazione alla Rivista militare di Firenze, di cui fu anche direttore e, in seguito alla notorietà ottenuta con la pubblicazione in volume dei suoi Bozzetti di vita militare, decise di dimettersi dall’esercito per dedicarsi all’attività giornalistica. Fin da ragazzo aveva rivelato attitudini letterarie, scrivendo versi che inviava ad illustri critici e direttori di giornali. Alla Biblioteca di Brera si conserva una lettera indirizzata ad Alessandro Manzoni, ultrasettantenne e nume riconosciuto dei letterati italiani, per avere dall’illustre Maestro un suo giudizio critico su un’ode alla Polonia da lui composta. Il Manzoni gli rispose, annotando tra l’altro: ' Se dicessi che i versi mi paiono privi di difetti, sarei un adulatore; ma parlerei egualmente contro il mio sentimento se dicessi che non mi par di vedervi il presagio di un poeta. In mezzo a quei difetti che col tempo si perdono, ci sento … quelle virtù che col tempo si perfezionano, e che nessun tempo può far acquistare'. Nel 1865 era stato a Messina, prima di partire con la sua guarnigione per la guerra contro l’Austria. Pare non sia vera la notizia che nel 1868 De Amicis si trovasse in Sicilia, dove era scoppiata una grave epidemia di colera, di cui trattò nel bozzetto L’esercito italiano durante il colera del 1867. Tornerà nell’Isola nel 1906 su invito del poeta ed ex commilitone Mario Rapisardi. Appena ventunenne De Amicis , ancora militare, giungeva a Firenze, capitale d’Italia. Il suo incarico di direttore del giornale L’Italia militare gli favorì l’accesso al salotto di donna Emilia Peruzzi, tempio della borghesia risorgimentale, in cui il giovane scrittore venne a contatto con gli uomini più autorevoli della politica e della cultura dell’Italia unita.' Fu da quegli incontri – scrive Spadolini –  che  si avviò il profondo legame destinato ad unire De Amicis a donna Emilia, passando dai giovanili fervori sentimentali a un’affettuosa devozione, anche quando la vita dello scrittore si sarà allontanata dalla città'.
Nel 1870 partecipò da cronista alla Breccia di porta Pia come inviato speciale della Nazione di Firenze. Dal 1872 al 1879 viaggiò in Europa e in Africa come corrispondente di testate giornalistiche, i cui resoconti pubblicò puntualmente in volume: Spagna (1872), Olanda e ricordi di Londra (1874), Marocco ( 1876), Costantinopoli e Ricordi di Parigi (1879). A metà degli anni Ottanta, De Amicis si stabilì definitivamente a Torino, dove pubblicò il libro Cuore, che decretò la sua fama letteraria oltre i confini della Nazione. Nel 1890 tenne a Torino un discorso agli operai, nel quale si proclamò socialista, spinto più che da principi ideologici legati al marxismo da un profondo sentimento  di fratellanza verso i deboli e dall’accentuarsi della questione sociale. Gli ultimi anni della sua vita furono rattristati dalla morte della madre ottantenne nel 1898, ma soprattutto dal suicidio di Furio, suo figlio primogenito, che si tolse la vita all’età di ventidue anni, nel parco Valentino di Torino con un colpo di pistola. Si pensa che non riuscisse a sopportare i continui e furiosi litigi dei suoi genitori: la madre, Teresa Boassi, di estrazione sociale molto modesta, accusava il marito di eccessivo egocentrismo. De Amicis l’aveva sposata nel 1875 contro il volere della sua famiglia solo con il rito religioso. Dopo la nascita del secondogenito fu celebrato il rito civile, ma i rapporti familiari si deteriorarono presto, soprattutto tra la nuora e la suocera. Teresa accusava il marito di impedire ai figli di seguire la vocazione giornalistica e letteraria, geloso dei suoi successi. Ugo, il secondogenito  nato nel 1879, fu scrittore anch’egli, ma la sua fama venne oscurata dalla stragrande notorietà del padre. Forse per sfuggire alle furiose litigate dei genitori, si dedicò all’alpinismo con successo. Nel 1904 raggiunse la cresta del monte Cervino, che oggi porta il suo nome. Non riuscì però a raggiungere la vetta del monte. Morì nel 1962.
I problemi e i lutti familiari, la separazione dalla moglie dopo il suicidio di Furio spinsero Edmondo ad allontanarsi da Torino. Nel 1902 soggiornò a Firenze, la città della sua giovinezza, insignito dell’onore di socio dell’Accademia della Crusca. Nel 1906 accettò l’ospitalità di Mario Rapisardi a Catania e da qui ritornò nella sua Liguria, dove nel 1908, colpito da un’emorragia celebrale,  morì a Bordighera in una camera dell’hotel della Regina. I suoi resti riposano, per rispetto delle sue volontà testamentarie, nel Cimitero monumentale di Torino.    
Dopo Pinocchio, Cuore è il libro per ragazzi più celebre in Italia. Il suo successo fu strepitoso e dopo solo due mesi e mezzo dalla pubblicazione si contavano 41 edizioni e 18 richieste di traduzione. Soltanto La lettera ad una professoressa di Don Milani del 1967 avrà un successo paragonabile all’attenzione che in campo educativo esercitò l’opera di De Amicis. In una pagina delle sue Memorie De Amicis lega al ricordo del figlio morto suicida l’ispirazione a scrivere questo libro: ' Fu lui (Furio), fu l’amore che egli ebbe per la scuola, la sua dolce gratitudine verso le maestre, l’affetto di fratello posto ai suoi piccoli compagni, che m’ispirò di scrivere un libro per i ragazzi: non n’avrei forse avuto l’idea se non avessi vista la scuola elementare a traverso la sua bell’anima, in cui ogni cosa s’abbelliva'.  I temi centrali su cui si focalizzano i bozzetti di vita scolastica sono l’altruismo, l’amor di patria, la solidarietà sociale e l’onestà civile, tutti valori laici, che dovranno costituire l’impianto educativo della nuova Italia.  Cuore racconta le vicende di una terza elementare della scuola Baretti di Torino nell’anno scolastico 1881-82. Il testo è diviso in tre parti: le vicende della classe narrate da Enrico; i racconti mensili narrati dal maestro; le lettere dei genitori e della sorella di Enrico. Sotto forma di diario, la serie di aneddoti e bozzetti è divisa nel corso di un intero anno scolastico, da ottobre a luglio, mese in cui si svolgevano gli esami. I protagonisti sono i compagni del piccolo Enrico, cinquanta bambini appartenenti a classi sociali diverse, che presentano uno spaccato della società di fine Ottocento, ma anche una testimonianza umanitaria sofferta delle condizioni di vita dei figli del proletariato. La scuola è vista come la porta d’ingresso verso l’emancipazione sociale, culturale e morale. Ogni episodio è un tassello di quella società ideale che il De Amicis progetta in cuor suo. L’autore presenta tipi umani ben caratterizzati: Garrone è il compagno buono e generoso, che si accusa col maestro  di aver lanciato il calamaio, che  era stato tirato invece da Crossi, il compagno con i capelli rossi e con un braccio morto, figlio di un’erbivendola. Il povero ragazzo era sbeffeggiato dai compagni con cattiveria e soprattutto dalla brutta faccia di Franti. Era questo il compagno più cattivo della classe che godeva nel far soffrire il prossimo. Salito su un banco, scimmiottava la mamma di Crossi, facendo mostra di portar due cesti sulle braccia. Da qui la reazione del figlio e la drammatica conclusione del suo gesto: il calamaio andò in tutt’altra direzione e colpì nel petto il maestro che entrava. Un alto esempio di dignità De Amicis propone ai suoi giovani lettori attraverso il gesto del piccolo patriota padovano: era stato venduto dai suoi genitori, poveri contadini padovani, al capo di una compagnia di saltimbanchi. Stremato dai lunghi digiuni e dalle continue percosse dei suoi aguzzini a Barcellona era scappato e aveva chiesto aiuto al console d’Italia che lo aveva imbarcato su un piroscafo per Genova. Durante la traversata, tre viaggiatori stranieri, incuriositi dalla condizione del povero ragazzo che si stava rannicchiato in un angolo del bastimento, mossi a compassione e un po’ brilli,  conosciuti alcuni particolari della sua misera condizione, gli diedero dei soldi, che rappresentavano una piccola fortuna. Mentre i tre viaggiatori bevevano e discorrevano dei loro viaggi,vennero a ragionare dell’Italia e a parlar male degli alberghi, delle strade ferrate, degli Italiani ladri, ignoranti e truffatori. A quel punto un tempesta di soldi e di mezze lire si rovesciò sulle loro teste. : ' Ripigliatevi i vostri soldi – disse con disprezzo il ragazzo -  io non accetto l’elemosina di chi insulta il mio Paese'.  I racconti mensili che propone il maestro ai suoi piccoli alunni parlano tutti al cuore, al fine di suggerire modelli di comportamenti etici, sociali e patriottici. Così la vicenda della piccola vedetta lombarda, che dalla cima dell’altissimo frassino segnala ad un drappello di cavalleggeri la presenza di milizie austriache, finendo la sua breve esistenza colpito dal fuoco nemico. Come pure l’eroica impresa del Tamburino sardo, che riesce ad attraversare il fuoco nemico la prima giornata della battaglia di Custoza, il 24 luglio del 1848, per consegnare all’ufficiale delle truppe amiche un messaggio di richiesta di rinforzi del suo capitano. Un nobile esempio di amore filiale è la commovente impresa del ragazzo genovese, che affronta il lungo viaggio dagli Appennini alle Ande per ritrovare la madre,  emigrata in Argentina in cerca di lavoro. Come pure la generosa scelta del piccolo scrivano fiorentino, che di notte si alza per prendere il posto del padre, costretto dalle precarie condizioni della famiglia ad un lavoro straordinario di copista. Franti rappresenta, invece, tutto ciò che bisogna evitare: la cattiveria, l’invidia, la vigliaccheria, l’egoismo, la falsità. Anche nell’aspetto appare ripugnante con quella fronte bassa, gli occhi torbidi, che tiene quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata. Non ha rispetto per nessuno, neppure verso il maestro. Franti è il figlio che nessun genitore vorrebbe avere. Odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro.
'Senza cadere nel paradosso – scrive Spadolini – si potrebbe affermare che, alla base di Cuore, vi è una vera e propria filosofia, una concezione consapevole della vita dal punto di vista di un laico illuminato: è la beneficienza che sostituisce la carità, il maestro che prende il posto del prete, la scuola che si sovrappone al seminario, l’ospedale che si contrappone all’ospizio, il servizio militare che surroga la preparazione religiosa, la ginnastica che assume l’importanza degli antichi esercizi spirituali'.  Il De Amicis fu uno dei più grandi diffusori della pedagogia laica, un socialista umanitario, interprete dei bisogni dei più deboli e acuto osservatore dei problemi che affliggevano l’Italia: l’analfabetismo, l’ingiustizia sociale, la piaga dell’emigrazione interna ed estera. Questo grande afflato umanitario è all’origine del successo del libro, che già nel primo decennio  aveva venduto quattro milioni di copie e dopo un secolo ne vendeva ancora 150.000 all’anno. Ma che fine hanno fatto i tre miliardi di lire dei diritti d’autore depositati in Svizzera dal figlio Ugo, che morto nel 1962, aveva lasciato erede la moglie con l’impegno di destinare ogni bene di famiglia alla fondazione di borse di studio per i bambini poveri di Torino? Nel 1969 il Comune di Torino, alla morte dell’ultima erede, la nuora Vittoria, riuscì ad entrare in possesso di circa mezzo miliardo, cioè l’intero patrimonio italiano, ma delle somme depositate in Svizzera si sono trovate solo ottantatré sterline d’oro nella cassetta di sicurezza del Banco di Roma di Lugano. Probabilmente il conto era stato prosciugato da una mano misteriosa. Non sono spariti però solo i soldi, sono spariti dalla scuola italiana tutti quei valori che De Amicis aveva indicato come indispensabili a creare un tessuto sociale coeso in nome della libertà dell’uguaglianza e della fratellanza.
Trapani 22.X.2013                                                                                           prof. Antonino Tobia
 

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Autore Prof-Greco

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Inserito il 26 Ottobre 2013 nella categoria Relazioni svolte