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Dante e la virtù umana

Sulla nozione di Virtù in Dante ha disquisito con somma competenza Antonino Tobia

Relatore: Prof. Antonino Tobia - Letterato

Dante e la virtù

Immagine riferita a: Dante e la virtù umanaImmagine riferita a: Dante e la virtù umanaIl termine virtù deriva dal lessema latino virtus, dalla radice vir = uomo eccellente, eroe. Sul piano diacronico il termine ha però acquistato significati diversi. Per i latini lavirtus corrispondeva al termine greco areté e designava qualsiasi capacità o eccellenza nel conseguimento di un fine. Con questo termine i greci designavano il coraggio, il valore, le qualità e i meriti di un individuo,  ma allo stesso tempo vi attribuivano una valenza morale.Già in Saffo si legge che 'la ricchezza disgiunta dalla virtù è una vicina rovinosa'. Per Socrate, che identifica la virtù con il sapere, essa è rappresentata come una disposizione della volontà verso il bene, per cui l’uomo virtuoso riesce con la ragionead avere il predominio sulle tendenze sensibili, istintive ed inferiori.Platone nella Repubblica definisce virtù cardinali la sapienza, la fortezza, la temperanza e la giustizia, in quanto costituiscono il cardine di tutte le altre virtù. Per Aristotele la virtù consiste nell’agire secondo ragione. Egli distingue due specie di virtù: le virtù teoretiche o dianoetiche e le virtù pratiche o etiche. Le virtù dianoetiche sono le più elevate e comprendono le virtù della pura ragione ( grec. nous), e cioè scienza, arte, saggezza, sapienza. Grazie a queste virtù si attua la vita teoretica, cioè speculativa o contemplativa, affine alla vita della divinità. Le virtù etiche costituiscono, invece, un abito, un modo di essere che consente all’uomo di  scegliere di volta in volta il giusto mezzo fra gli estremi (dal grecomesòtes), e di controllare le passioni. In sintesi, la virtù secondo Aristotele consiste nell’agire secondo ragione e da questa virtù nasce la felicità.Già Platone aveva indicato le virtù come strumenti per raggiungere la felicità, ma a differenza di Aristotele che agisce nell’ambito di una concezione laica dell’esistenza, Platone asserisce che le virtù permettono all’anima di dominare gli impulsi del corpo e di ritornare nell’Iperuranio a contemplare le Idee.Il Cristianesimo con san Tommaso si mantiene fedele al pensiero aristotelico anche per quanto riguarda la morale. Secondo la dottrina tomistica, le virtù cardinali sono in grado di assicurare la felicità naturale all’individuo, che con l’esercizio delle stesse si crea un habitus che l’aiuta a scegliere tra il bene e il male. Ma per raggiungere la beatitudine celeste occorrono le virtù teologali: fede, speranza e carità, che consentono di andare oltre il naturale ed attingere all’ordine soprannaturale.Dante nella sua Commedia applica ai personaggi del mondo ultraterreno il criterio valutativo dell’etica tomistica, con una scrupolosa distinzione degli effetti prodotti sulle anime sia dalle virtù cardinali sia dalle teologali.Nel IV canto dell’Inferno il poeta rivela di essere profondamente turbato da un problema teologico, che ritornerà con un maggiore approfondimento nelXIX canto del Paradiso, (vv.70-88) : quanti non conobbero Cristo e non poterono emendare col battesimo il peccato originale, pur avendo condotto una vita  giusta e pia, guidati dalle virtù cardinali, avranno accesso al premio eterno? Si tratta, come egli diràdi ' un gran digiuno/ che lungamente m’ha tenuto in fame/ non trovandoli in terra cibo alcuno' (vv.25-27). La ragione umana, infatti, non sa trovare alcuna risposta, perché la vista e l’intelligenza possono percepire ed intuire solo ciò che appare. Laddove la mente umana non riesce a penetrare, occorre fare ricorso alla fede nelle Sacre scritture e nel magistero deiPadri della Chiesa. Secondo S. Tommaso il battesimo è l’unica 'porta de la fede', per cui chi non riceve tale sacramento non è ammesso nel regno dei Cieli.Ancora prima, S. Agostino aveva posto tra i dannati tutti i pagani e quanti, nati dopo Cristo, non avevano ricevuto il battesimo, compresi i bambini, sebbene questi con 'pena mitissima'. A Dante, pertanto, non resta che cercare umilmente la soluzione del suo dubbio nel messaggio evangelico, ricorrendo tra l’altro, alla parola di S. Giovanni, che afferma che non può entrare nel regno di Dio se non chi sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo (oportetvos nasci denuo)' ( III,5). Principio teologico questo ribadito da S. Paolo, quando scrive che 'senza fede è impossibile piacere a Dio; poiché chi si accosta a Lui deve credere che Egli è, e che ricompensa tutti quelli che Lo cercano' Lettera agli Ebrei XI,6.Tuttavia, Dante si concede qualche libertà poetica forzando la coerenza teologica. È il caso di Catone Uticense, pagano e morto suicida, che ponea custode del Purgatorio. Così pure colloca in Paradiso, nel cielo di Giove tra gli spirti giusti, due pagani come l’imperatore Traiano e Rifeo.Il primo era resuscitato per le preghiere di S. Gregorio e nella sua seconda vita, acceso 'di foco/ di vero amor'  per Cristo, si era convertito e aveva meritato il premio eterno. Il troiano Rifeo era stato immortalato da Virgilio come 'iustissimusunus, / qui fuit in Teucris et  servantissimusaequi' (Eneide, II vv.425-27) e Dante lo inserisce tra gli spiriti beati quasi a sottolineare l’incapacità degli umani di penetrare nella concezione divina della giustizia.Il problema della collocazione degli spiri giusti che hanno ben meritato per il loro pensiero o le loro azioni è risolto poeticamente già nel canto IV dell’Inferno, trasgredendo i rigori teologici. Del resto un intellettuale, qual era Dante, non poteva disconoscere il valore culturale dei personaggi che hanno contribuito al progresso dell’umanità in tutti campi dello scibile. Pertanto, popola il Limbo di 'gente di molto valore' che in vita 'non peccaro; e s’elli hanno mercedi,/ non basta, perché non ebber battesimo, / ch’ è la porta de la fede che tu credi;/ e s’e’furon dinanzi al cristianesimo,/ non adorar debitamente a Dio : /e di questi cotai son io medesmo'(Inf.,IV vv.34-39).Anche Virgilio, il signore, il duca e il maestro, a cui il pellegrino Dante riconosce scienza ed arte, è costretto per l’eternità a vivere nel desiderio di Dio senza speranza di vederlo appagato, per nessuna altra colpa che per la mancanza di fede.Ma la giustizia divina non è insensibile alla grandezza di quegli spiriti che hanno lasciato nella vita terrena 'onrata nominanza' e pertanto concede loro un particolare privilegio, che li distingue mettendoli fuori dalla tenebra infernale. Così il poeta s’inventa un nobile Castello illuminato, sede privilegiata di Omero, poeta sovrano,  Orazio satiro, Ovidio delle Metamorfosi, Lucanol’autore dellaFarsaglia, Virgilio, che chiude 'la bella scola', di cui Dante fu 'sesto tra cotanto senno'. Con questo artificio architettonico e altamente poetico l’Alighieri ricompone tutti gli aspetti della cultura e ricostruisce una enciclopedia della sapienza e della virtù umana in cui tanti pagani hanno scritto pagine di alta sapienza, di profonda filosofia, di eccellenza artistica. Così nell’oltretomba Dante si arroga il diritto di interpretare il pensiero e il metro digiustizia di Dio. Tra gli spiriti magni sono collocati personaggi del mito come Elettra, Enea, Ettore, Camilla, Lavinia; personaggi della storia romana, come Bruto, che cacciò Tarquinio e diede vita alla repubblica e il grande Cesare armato con liocchi grifagni, che Dante considera il fondatore dell’impero; tra i filosofi non poteva mancare il maestro di color che sanno, Aristotele, insieme con Socrate e Platone,e ancora colui che il mondo a caso pone, Democrito con  la famiglia degli ilozoisti, quindi matematico Euclide e l’astronomo Tolomeo, il padre della medicina, Ippocrate con Galeno, Cicerone e Seneca morale; e tra i grandi spiriti musulmani, Saladino, sultano d’Egitto (1174), famoso nel Medioevo per la sua liberalità,  che solo, in parte  testimonia la sua diversità di fede, il medico Avicenna e il grande interprete arabo dell’opera di Aristotele, Averroé, che ‘l gran commento feo.Dante esalta in tal modo la virtù e la saggezza umana, superando ogni divisionedi tempo e di religione. I megalopsicoi, come Aristotele chiama i grandi spiriti nell’Etica Nicomachea, sono degni di una particolare focalizzazione che li possa immortalare finché il sole brillerà sulle sciagure umane, nonostante non abbiano avuto fede in Cristo venturo o siano rimasti lontani dalla parola di Cristo. Questi spiriti eccelsero nel pensiero e nell’azione ed espressero al meglio le loro virtù etiche o cardinali, la prudenza, la fortezza, la giustizia e la temperanza. Il concetto di virtù che Dante definisce nel Limbo è quello legato alla storia e non ha nulla di metafisico. È la virtù politica del Principe del Machiavelli, che deve infrenare la casualità della fortuna; e quella che si riscontra nelle parole dell’infelice Saffo cantata dal Leopardi. La virtù in Machiavelli, al di là di ogni connotazione etico-religiosa, presuppone la saggezza e la prudenza, la forza e la temperanza, quelle doti di cui deve essere fornito il Principe per creare e conservare il suo Stato, disposto a sacrificare la propria vita per raggiungere questo fine. La celebrazione che Dante fa degli uomini virtuosi è ispirata alla loro grandezza morale, quella magnificata dal Petrarca e mutuata dal Segretario fiorentino a chiusura del suo trattato: 'Virtù contra furore/ prenderà l’arme, et fia il combatter corto/ ché l’antico valore / ne l’italici cor’ nonè anchor morto'.Anche Saffo meritava di essere citata tra i grandi spiriti del Limbo dantesco. A questa lacuna provvide il poeta di Recanati, che con l’infelice poetessa di Lesbo ammetterà che 'virtù non luce in disadorno ammanto'.Il Cristianesimo alle virtù cardinali, così definite da S. Ambrogio nel IV secolo,  aggiunse le virtù teologali, fede speranza e carità, essenzialialla vita del credente, per meritare la visione di Dio, e tanto più indispensabili per chi da vivo riceve la grazia di porsi dinanzi al mistero dei misteri. Da qui tutta la regia dell’esame di coscienza cui il pellegrino Dante dovrà essere sottoposto, prima di presentarsi al cospetto divino. Sulle tre virtù sarà pertanto esaminato da tre santi, tra i più vicini alla beatitudine celeste: S. Pietro sulla fede, S. Jacopo sulla speranza, S. Giovanni evangelista sulla carità.'Fede è sustanza di cose create/ e argomento de le non parventi,/ e questa pare a me sua quiditate' (Par. XXIV 54-66).La risposta, chenell’VIII cielo delle Stelle fisse del Paradiso il pellegrino Dante dà a S. Pietro, riporta le parole dell’Epistola XI agli Ebrei di san Paolo: Est autemfidessperandarumsubstantiarerum, argumentum non apparentium.Dante quindi ricorre al contenuto e allo stile scritturale per la sua risposta, che tuttavia appare a san Pietro solo descrittiva. Per questo il santo  lo incalza, pretendendo delle risposte meglio focalizzate sul significato di sostanza e di argomento. Richiamandosi al concetto aristotelico di substantia, ripreso dalla scolastica medievale, Dante risponde che la fede coincide con l’essere ed è il fondamento delle cose celesti, che sulla terra gli uomini sperano di poter un giorno vedere. L’argomento è, invece, lo strumento necessario a dimostrare o confutare qualcosa. La fede, pertanto, è essa stessa la prova delle altre cose che la mente non vede: si tratta del credo ut intellegamdi S. Agostino,speculare ad intellego ut credam, per cui i filosofipartono dalla realtà sensibile, i teologi dalla rivelazione. La medesima riflessione troveremo in San’Anselmo, allorché sostiene che la fede ha bisogno della ragione (fidesquaerensintellectum), in quanto il mondo materiale e l’uomo sono delle prove dell’esistenza di Dio, invisibile e allo stesso tempo visibile.Ma l’esame non è finito. S. Pietro vuol sapere se Dante possegga la fede, donde essa gli venga e perché ritenga che le Sacre Scritture siano ispirate da Dio. Le domande sono incalzanti ed esigono risposte  puntuali:Dante conferma prontamente che la sua fede è salda e non lascia adito ad alcun dubbio. Essa gli proviene dallo Spirito Santo che ha parlato attraverso il Vecchio e il Nuovo Testamento, e che i miracoli descritti nelle Sacre Scritture costituiscono un ulteriore fondamento alla sua fede, e che il miracolo più grande è dato dalla diffusione del Cristianesimo fra le genti, se è vero che proprio il suo esaminatore, uomo povero e digiuno, sia riuscito a seminar la buona pianta della religione di Cristo nelle vaste terre dell’impero romano. L’esame è finito e il discepolo è approvato con lode: La Grazia, che donnea/ con la tua mente, la bocca t’aperse/ infino a qui come aprir ti dovea,/ sì ch’io approvo ciò che fuori emerse. A corollario della difficile prova, Dante professa la sua fede in un solo Dio e nella Trinità: Io credo in uno Dio/ solo ed eterno, che tutto ‘lciel move,/ non moto, con amore e con disio;/… E credo in tre persone eterne, e queste/ credo una essenza sì una e sì trina,/ che soffera congiunto 'sono' ed 'este'.La fede è la più importante delle tre virtù teologali, perché da esse discendono la speranza e la carità.Sulla speranza Beatrice chiede a S. Iacopo di interrogare il suo amico. A differenza di S. Pietro, che ha interrogato Dante con un ritmo scandito e incalzante, S. Iacopo formula le tre domande di seguito: cosa sia la speranza, in quale misura Dante la possegga, donde gli sia venuta. Prima che l’interrogato risponda, interviene Beatrice, 'quella pia che guidò le penne/ delle mie ali a così alto volo', che anticipa la risposta alla seconda domanda. Così, con quell’affettuosa premura, che tanto di umano il poeta ama conferire alla donna da lui amata, Beatrice esprime tutta la sua gioia che le deriva dalla consapevolezza che nessun mortale può superare il suo Dante nel nutrire la speranza di giungere alla visione divina, in quanto la testimonianza di fede che ha proclamato al primo esaminatore è indefettibile. Quindi il discepolo risponde alla prima domanda: 'Spene … èuno attendere certo/ della gloria futura, il quale produce/ grazia divina e precedente merto'(XXV, 67-69). Dante traduce alla lettera quanto ha letto nel Liber Sententiarum del teologo medievale Pietro Lombardo (1100-1160) : Spes est certa exspectatiofuturaebeatitudinis, veniens ex Dei gratia et ex meritispraecedentibus (III, 26). Rispondendo poi alla terza domanda 'di’ onde a te venne' la speranza, il pellegrino ricorda che la lettura dei libri sacri alimentò in lui la speranza ed in particolare David:  'quei la distillò nel mio cor pria/  che fu sommo cantor del sommo duce' vv. 7172. David nel suo Salmo (IX,11) canta le lodi di Dio con le parole che Dante riprende: Sperent in te quinoveruntnomentuum. Ma anche lo stesso esaminatore, S. Iacopo, contribuì a stillare nel suo cuore la speranza in misura tanto ampia da potere riversare sulla Terra la sua benefica pioggia.Tra il tripudio degli splendori che compongono le corone dei Beati, si avvicina ai due apostoli precedenti un terzo splendore che si unisce alla danza e al canto. È S. Giovanni, l’apostolo prediletto da Cristo.Inizia, quindi, la terza prova d’esame per Dante sulla Carità : quale sia l’oggetto della carità, quali siano le ragioni della carità. Alla prima domanda l’interrogato risponde al suo esaminatore con le  parole tratte dall’Apocalisse: ' Io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine.A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell’acqua della vita '(XXI,6). Dio, il bene supremo che appaga di sé la corte celeste, rappresenta per Dante l’inizio e la fine di tutto ciò che l’amoresuscita nel suo animo con maggiore o minore ardore. Quindi, l’esame continua con una domanda diretta: 'dicerconvienti/ chi drizzò l’arco a tal berzaglio'.La risposta è chiara ed articolata. L’idea del Sommo Bene è giunta a lui attraverso Aristotele, secondo cui Dio non è solo la causa efficiente, ma anche la causa finale dell’universo, oggetto dell’amore e termine ultimo verso cui tutte le creature tendono. Dalla Bibbia, poi, Dante ha ricevuto la conferma di Dio sommo bene e vero amore, quando l’Autore infallibile rispose a Mosè, che gli chiedeva di voler vedere la gloria divina, 'Io ti farò vedere ogni valore'. Il Vangelo di S. Giovanni, infine, ha rivelato a Dante il mistero della creazione, del rapporto tra il Verbo che era con Dio e l’umanità : et verbum caro factum est et habitavit in nobis. Tutto l’universo, nato dall’amore di Dio, risponde alla legge dell’amore, poiché Dio stesso, secondo la definizione di S. Giovanni, è amore: Deus charitas est.Dio padre è amore e tale amore ha riversato sul suo unico figlio, che lo ha trasfuso sull’umanità col sacrificio di se stesso. L’amore non è quindi un bene prezioso da custodire nel proprio cuore, ma esso è offerta di sé al prossimo. Il percorso Dio Padre – Figlio- uomo deve procedere nella direzione dell’altro: Ama il prossimo tuo come te stesso, è il messaggio rivoluzionario di Cristo e chi ha riempito il suo cuore d’amore solo per Dio, sbaglia se pensa di poterlo tenere segreto e strettamente custodito nel proprio io. Se così facesse l’amore non sarebbe carità, ma avvizzirebbe, come talenti non impiegati per produrre o come terreno non dissodato per dare frutti.Dante sa che il credente ha ricevuto il dono di andare oltre, perché credere è sinonimo di oltre-passare i limiti della ragione. La fede illumina la ragione e la ragione sostiene la fede.È questo il senso della celebre ammonizione che Dante mette in bocca ad Ulisse, quando  vuole incoraggiare i suoi pochi compagni rimastigli a seguirlo oltre le Colonne di Ercole, metafora del limite estremo della conoscenza umana: 'Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza' (Inferno, XXVI, vv.118–120). L’esercizio della virtù, come affermazione del proprio valore,  e l’acquisizione della scienza sono privilegi propri dell’uomo  che lo distinguono dai bruti. Ma Dante, finissimo teologo cristiano, sa che è proprio la fede a consentire alla mente umana di andare oltre, perché credere è sinonimo di oltre-passare i limiti della sola ragione.La fede presuppone una continua ricerca, per cui non è un paradosso concludere con Julin Green che finché si è inquieti si può star tranquilli. - Prof. Antonino Tobia

Autore Legre

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Inserito il 11 Maggio 2018 nella categoria Relazioni svolte