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Il mistero di Dante

Antonino Tobia, novello Virgilio, ha accompagnato il numeroso pubblico presente nel mondo misterioso del sommo Poeta

Relatore: Prof. Antonino Tobia

Dante e i suoi misteri

Immagine riferita a: Il mistero di Dante

Parlare di alcuni dei misteri che l’opera di Dante conserva aiuta il lettore ad andare oltre l’interpretazione scolastica. La Commedia non è un fiore che spunta solitario nel deserto; è sicuramente il compendio più intrigante e più importante della civiltà medievale, intesa nella sua dimensione multiculturale. In essa, infatti, i frutti della civiltà greca e romana, la tradizione ebraica, il nuovo messaggio cristiano, gli studi e le traduzioni degli intellettuali arabi, finiscono col creare nuovi stimoli di ricerca metafisica, propongono nuovi modelli culturali e indicano un nuovo orizzonte di valori.

Nel secondo libro del Convivio, la prima opera dottrinaria di Dante, scritta tra il 1304 e il 1307, il poeta, prima di commentare la sua canzone Voi che ‘intendendo il terzo ciel movete, precisa come la canzone debba esser letta, affinché il lettore sappia cogliere il significato profondo ch’essa nasconde. Per questo, illustra la teoria dei quattro sensi delle scritture: litterale, … quello che non si stende più oltre della lettera;  allegorico,… quello che è una veritate ascosa sotto bella menzogna; morale, …quello che i lettori deono intensamente andare appostando per le scritture, ad utilitate di loro e di loro discenti; anagogico, cioè sovrasenso … quando spiritualmente si spone una scrittura … che per le cose significate significa delle superne cose de l’etternal gloria.

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Nell’epistola XIII, indirizzata a Cangrande della Scala, a cui dedica il Paradiso, Dante torna a trattare dei quattro significati di lettura e di interpretazione, quelli che vanno ricercati nella sua Commedia. L’intento mira a dare una risposta al conflitto esistente fin dai tempi di Platone tra filosofia e poesia. Il filosofo greco considerava la poesia menzognera e diseducativa. L’allegoria, come viene intesa nel medioevo, viene a sanare questo contrasto, in quanto non solo va oltre il significato letterale, che può sembrare poco veritiero, ma consente di cogliere sotto il velame de li versi strani il significato profondo ai più ignoto. Dante, inoltre, afferma che l’allegoria da lui usata non è l’allegoria in verbis dei poeti, ma quella in factis dei teologi: il senso letterale della sua poesia non è una bella menzogna, il viaggio nell’aldilà non è una finzione poetica, ma un evento reale, come lo fu la liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, dove il fatto storico è un’anticipazione, una figura della liberazione dell’umanità dalla schiavitù del peccato originale, a seguito della discesa di Cristo sulla Terra.

 Ma chi è Dante? Quanto misteriosa fu la sua dura peregrinazione di corte in corte per circa venti anni?   

Per dare una possibile risposta a queste domande, è preferibile iniziare la ricerca non tanto dalla 'selva oscura', in cui il poeta confessa di essere precipitato 'nel mezzo del cammin' della sua vita, ma dalla preghiera che san Bernardo di Chiaravalle intona alla Vergine, cioè dall’incipit del canto XXXIII del Paradiso.

Perché san Bernardo? Perché Dante sostituisce Beatrice nell’attimo più coinvolgente della sua anima, quando essa s’india?  

Bernardo, monaco francese, dal 1830 celebrato fra i dottori della Chiesa, nacque nel 1090 e morì nel 1153. Entrato in convento, esercitò un’intensa azione riformatrice dell’ordine dei Cistercensi, fondato da san Benedetto a Montecassino nel VI secolo. Nel 1128 ottenne l’approvazione della Regola dei Templari, in favore dei quali scrisse il De laude novae militiae.

I Templari costituivano un ordine religioso-militare per la difesa dei pellegrini che si recavano a Gerusalemme per visitare il Santo sepolcro. Furono così chiamati perché risiedevano  nel Palazzo del Re di Gerusalemme, vicino al Tempio di Salomone, dopo che i Crociati ebbero conquistato la città nel 1099. L’Ordine, fondato da Ugo di Payns, ebbe riconoscimenti e privilegi da principi e pontefici, unendo in sé l’aspetto temporale e quello spirituale. L’Ordine, in nome della sua nobile missione e grazie all’eroismo più volte manifestato nella lotta contro gli infedeli, acquistò in breve tempo enormi ricchezze e vasti patrimoni, che gli consentirono di costruire imponenti cattedrali, fondare banche, riscuotere rendite in tutta Europa. Il suo ruolo e la sua potenza militare e finanziaria accentuarono viepiù l’aspirazione a considerarsi un  organo politicamente indipendente, svincolato da ogni obbligo di sudditanza rispetto a re e papi. Questa manifesta sovranità non tardò ad essere considerata un elemento di disgregazione del fragile regno di Francia, da dove aveva mosso i primi passi. Il clima di ostilità nei confronti dei Templari si accentuò dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291) e il forzato allontanamento dei cavalieri dalla Terrasanta. Acerrimo nemico dell’ordine fu il consigliere di Filippo il Bello, Guglielmo di Nogaret. Il 13 ottobre 1307 il re di Francia diede ordine di arrestare tutti i Templari francesi, primo fra tutti il loro Gran Maestro Giacomo Molay accusato, insieme ai suoi fratelli, di eresia e di atti osceni e blasfemi. Clemente V, sotto il cui pontificato ebbe inizio il periodo avignonese, ossequioso verso Filippo il Bello, scomunicò e soppresse l’Ordine. Molti Templari salirono sul rogo dopo atroci torture, tra cui lo stesso Giacomo di Molay, che fu arso vivo.

Ma la fine dei Templari non sancì la loro scomparsa; le idee di un’epoca non si possono cancellare totalmente, come si cancella un brutto sogno. In varie parti d’Europa l’Ordine sopravvisse sotto altri nomi, trasformandosi in società segrete o coprendo il proprio programma di vita attraverso un linguaggio simbolico. In Toscana è probabile che l’Ordine assunse il nome di Fedeli d’amore, una società esoterica che comunicava con immagini poetiche convenzionali, tipiche dei poeti del Dolce Stil novo. Cavalcanti, Lapo Gianni, Dante Alighieri sono i nomi più noti dello Stilnovismo.

Il ricorso ad un linguaggio esoterico si rendeva necessario per andare oltre la cultura confessionale, per rivendicare un’assoluta indipendenza nei confronti della Chiesa, per non incorrere nell’accusa di eresia, come pure, in politica, per sostenere l’idea dell’autonomia del potere temporale.

Guido Cavalcanti e Dante furono gli esponenti più insigni di tale associazione, considerata da molti una filiazione dell’Ordine dei Templari, nei cui confronti è interessante considerare l’atteggiamento di ammirazione espresso da Dante nella sua Commedia. Nel canto XIX dell’Inferno il poeta, tra i condannati per simonia confitti a testa in giù dentro buche scavate nella roccia, con i piedi lambiti di fiamme, incontra l’anima di papa Niccolò III, il quale predice per Bonifacio VIII la sua medesima fine (Bonifacio VIII in verità era già morto nell’ottobre del 1303) e aggiunge che la stessa fine farà Clemente V : ' …dopo di lui verrà di più laida opra/ di ver’ ponente, un pastor sanza legge,/ tal che convien che lui e me ricuopra./ Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge/ ne’ Maccabei; e come a quel fu molle / suo re, così fia lui chi Francia regge'. (vv.82-87). Clemente V è condannato per simonia, ma soprattutto per il suo ossequio a Filippo il Bello,  'il mal di Francia' (Purg. VII, 109), che fu ' … sì crudele,/ che ciò nol sazia, ma senza decreto/ portar nel Tempio le cupide vele/. (Purg. XX, 91-93). Qui Dante allude all’illegale rapina e spoliazione del vasto patrimonio dell’Ordine dei Cavalieri Templari. L’accusa di avidità suona ancora più infamante perché pronunciata da Ugo Capeto, capostipite della casa regnante di Francia.  E più avanti, nel canto XXXII, Filippo il Bello è ritratto come un gigante, che ha aggiogato ai suoi lussuriosi voleri la Chiesa di Clemente V, presentata come una meretrice, che cede alle lusinghe del suo amante. Il riferimento alla cattività avignonese è chiaro.

Dante era un perseguitato dalla Curia romana, al punto che chiunque aveva licenza di ucciderlo. La sua colpa era quella di aspirare alla palingenesi morale della Chiesa, che continuava a perseguitare ogni setta religiosa pauperistica: catari, albigesi, patarini, valdesi, che fustigavano la corruzione dei papi, in nome di un ritorno alle virtù evangeliche. Dante condannava il potere temporale dei papi, fiducioso nella restaurazione di una Monarchia Universale a garanzia della pace e della concordia tra popoli. Il linguaggio dei Fedeli d’amore non si ispirava tanto alla dimensione politica dell’esistenza umana, quanto alla dimensione interiore e spirituale dell’anima, la cui evoluzione avviene attraverso la Sofia, cioè attraverso l’amore per la sapienza. Un percorso, quindi, esclusivo, rivolto agli spiriti eletti, laddove i profani non sarebbero andati oltre il significato letterale, incapaci di procedere oltre il velame dell’allegoria. Il sovrasenso, quindi, può essere colto solo dagli iniziati. Così, il Carducci, ' La Beatrice della Commedia è la teologia, la scienza, la fede, è il voler ricondurla alle proporzioncelle di una sposina … è un correr rischio di peccare contro Dante, contro il Medioevo, contro la coerenza …'. Beatrice di Folco Portinari non ha nulla da spartire con la Beatrice che accompagna Dante attraverso i cieli del Paradiso. Qui Beatrice è la guida eletta dalla Madonna e da Lucia per aiutare il poeta lungo il suo percorso di iniziazione attraverso i cieli, che sono i gradini attraverso i quali Dante acquista le doti di volta in volta necessarie a salire ad un grado superiore di scienza e di intelligenza. Non è un mistero che le sette arti liberali avevano una loro corrispondenza con i sette cieli che Dante attraversa. Per es. alla Luna corrispondeva la Grammatica, a Mercurio la Dialettica, a Venere la retorica… Si trattava delle  arti maggiori e minori che venivano insegnate nelle scuole e che quindi non avevano nulla di esoterico. Tuttavia, l’insegnamento riguarda la copia dell’idea, per cui l’intellettuale che ama elevarsi dal sensibile al sovrasensibile aspira ad andare oltre la copia della realtà, nel tentativo di ammirare l’idea che, platonicamente, rappresenta la perfezione.

Il desiderio di elevarsi spiritualmente è insito in tutti gli uomini, soprattutto in quanti rifiutano sia il materialismo sia il freddo razionalismo. In taluni spiriti la ragione trova conforto nel credo di una religione,  altri laicamente si affidano alla Sofia. In ogni caso, si tratta della fede nell’uomo e nelle sue possibilità di cogliere l’assoluto oltre il finito. Questo anelito alla verità si esprime ogni volta con linguaggi diversi, che mirano al raggiungimento della medesima meta, da Pitagora ad Einstein, da Virgilio a Dante. Dopo i Fedeli d’amore sono sorte altre associazioni, altri uomini si sono sentiti affratellati nel comune percorso iniziatico, dai Rosa Croce alla Massoneria, ed altre simili ne sorgeranno, tutte ispirate all’umanesimo e alla  fede nella perfettibilità dell’animo umano. Questa specie di fratellanza spirituale separa gli iniziati dai profani, assume le caratteristiche di un’appartenenza religiosa ( dal lat. relegere ‘raccogliere’) che ha bisogno per riconoscersi di riti misterici, linguaggi segreti, simboli esoterici.  Se la meta è unica, il raggiungimento della Verità, cambiano di volta in volta le condizioni spazio-temporali. Per cui, se Virgilio nelle sue visioni esoteriche fu fortemente influenzato dalla cultura greca, dal pensiero filosofico degli epicurei prima e degli stoici poi, Dante ha assorbito nella sua vasta conoscenza gli stimoli culturali del suo tempo, indicando un suo percorso iniziatico, che certamente rifletteva la temperie culturale mediterranea.

Fino a qualche decennio addietro era considerato sacrilego indagare le fonti letterarie del capolavoro di Dante, come se si commettesse una sorta di deminutio capitis del padre della lingua italiana. Oggi se ne comincia a parlare non solo per approfondire i rapporti del poeta con il suo tempo, ma anche per una rilettura del testo che vada 'oltre il velame de li versi strani'.

Umberto Eco, nella sua Bustina di Minerva del 18 dicembre 2014, c’informa della ristampa del testo di Miguel Asin Palacios del 1919 La escatologia musulmana nella Divina Commedia, pubblicato oggi dall’editrice Luini con il titolo Dante e l’Islam. L’opera ha il merito di farci comprendere quanto fosse attiva la circolazione delle idee in tutto il Mediterraneo nel duecento e nel trecento, grazie alla dominazione araba nell’Europa meridionale, dall’Africa alla Sicilia, alla penisola iberica. Gli Arabi avevano ereditato e trasmesso all’Occidente le opere più importanti della civiltà greca, ma avevano diffuso nel mondo medievale anche molti racconti di visioni ultraterrene, di visite ai regni dell’Oltretomba, di discesa negli Inferi e di ascesa alle sfere celesti. Sicuramente Dante ne era a conoscenza o per lettura diretta o attraverso il suo maestro Brunetto Latini.

Il ‘200 è il secolo in cui i rapporti fra il mondo cristiano e il mondo musulmano si fanno molto stretti, grazie a Federico II e Alfonso X il Savio, fondatore della famosa scuola di Toledo, dove si traduceva dall’arabo al castigliano, dal castigliano al latino o al francese. Dante direttamente o indirettamente fu affascinato dalla cultura che veniva dall’oriente. Un esempio dell’influenza araba è presente nel canto XXVI dell’Inferno, il famoso canto di Ulisse. L’eroe greco, giunto 'dov’Ercole segnò li suoi riguardi' le famose Colonne d’Ercole, si chiedeva  se la sua vertute fosse tale da poter affrontare insieme con i pochi compagni rimastigli il viaggio diretro al sol, del mondo sanza gente, incurante di ogni divieto. L’atteggiamento di prudenza sembra strano a noi che sappiamo che tale divieto nel mondo greco e presso i Romani non era mai stato posto né dalle leggi umane né dalle leggi divine. Pare, invece, che interessasse proprio agli Arabi divulgare la leggenda del peccato di tracotanza per chi osava andare oltre lo Stretto e ciò allo scopo di favorire il loro commercio nel Mediterraneo, di cui erano dominatori incontrastati. Anzi, per rendere più efficace tale divieto, pare che gli Arabi avessero innalzato una gigantesca statua bronzea di Maometto, che con la mano sinistra faceva segno di no, di qua non si passa.

Altra fonte araba per Dante potrebbe essere stato il Libro della scala, ritrovato negli anni quaranta del secolo scorso. In esso si favoleggia del viaggio nell’oltretomba del profeta Maometto. Maria Corti, nella sua opera Dante e l’Islam, c’informa che a Toledo, presso la corte di Alfonso il Savio, svolgeva mansioni notarili un certo Bonaventura di Siena, impegnato anche nell’opera di traduzione dei testi arabi in castigliano. Sua è la traduzione del Liber scalae Maometti dell’ottavo secolo, che racconta il viaggio nell’aldilà del profeta Maometto, attraverso il Paradiso e l’Inferno, accompagnato dall’arcangelo Gabriele. Il Libro era sicuramente noto agli intellettuali medievali, ma soprattutto ne aveva avuto conoscenza Brunetto Latini, che nel 1259 era stato inviato a Toledo dal governo guelfo fiorentino a chiedere aiuto al re Alfonso X. Qui aveva stretto rapporti di amicizia col senese Bonaventura. Non sappiamo se Dante conoscesse il testo originale, ma non è difficile pensare che ne abbia discusso col Maestro, la 'cara e buona immagine paterna' che gli insegnò 'come l’uomo s’eterna' (Inf., XV). Ser Brunetto è poi l’autore del Tesoretto, il più antico poema didattico-allegorico toscano, composto secondo lo schema desunto dal Roman de la rose.

Anche per quanto riguarda il mito di Ulisse e del suo naufragio, Maria Corti fa riferimento ad una fonte araba.

Certamente Dante conosceva il mito di Ulisse secondo il racconto omerico, tuttavia egli volle dare una nuova versione della tragica fine del figlio di Laerte, quella che leggiamo nel canto XXVI dell’Inferno. Si tratterebbe, secondo la studiosa, di una leggenda non inventata da Dante, ma dalle radici lontane, a partire dai commenti ai poemi omerici di Asclepiade di Mirlea (II sec. a. C.)  fino alla Geografia di Strabone (I sec. a. C.). Utilizzando queste fonti, Alfonso X nella sua Storia Generale racconta di un viaggio di Ulisse fondatore di Ulissipona, odierna Lisbona. Dallo storico greco il colto monarca avrà appreso che sopra lo Stretto di Gibilterra c’era una città chiamata Odyussia, dove aveva insegnato grammatica Asclepiade di Mirlea e che di fianco a questa città c’era un tempio dedicato ad Atena, la dea protettrice di Ulisse e alle pareti del tempio erano posti in bella mostra alcuni resti della nave naufragata dell’eroe greco.

Che cosa ha spinto l’Alighieri a preferire al racconto omerico la versione araba? La risposta potrebbe trovarsi nel significato allegorico che Dante ha voluto attribuire al naufragio di Ulisse. Il figlio di Laerte è scelto dal poeta quale simbolo dell’aristotelismo radicale: l’eroe greco ritiene di poter attingere la sfera della verità attraverso i soli strumenti umani. Questa forma di aristotelismo Dante aveva condiviso da giovane con l’amico Guido Cavalcanti, che continuò a professare tale dottrina filosofica anche dopo che egli se ne era allontanato. Di tale scissione ideologica lo stesso Dante dà una diretta testimonianza nel canto X dell’Inferno, allorquando al padre di Guido tenta di spiegare che suo figlio non lo accompagna perché ebbe a disdegno la nuova strada poetica e religiosa intrapresa da lui. Il naufragio di Ulisse, pertanto, simboleggia il naufragio dell’aristotelismo per una concezione esistenziale rinnovata, in cui confluisce il pensiero di Agostino, di Tommaso, di Bonaventura, in una perfetta sintesi di fede e ragione.

Maria Corti ha condotto studi molto ampi e molto approfonditi per riscontrare la presenza di fonti musulmane nella Commedia. Ciò non toglie nulla al livello artistico della creazione dantesca; al massimo la ricerca della Corti ci convince dei profondi e costruttivi rapporti che ci sono stati nel passato tra il mondo islamico e quello cristiano e di quanto sarebbe ancora oggi interessante riprendere il confronto sul piano culturale e politico per il progresso reciproco.  

                                                                                                    Antonino Tobia

Autore Prof-Greco

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Inserito il 20 Dicembre 2014 nella categoria Relazioni svolte