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L'io e l'altro: uno nessuno e centomila

Il Presidente della nostra Università, prof. Antonino Tobia, ha affrontato il tema del 'rapporto dell'ego con se stesso e con gli altri'

Il romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila, riprende un tema presente in letteratura  fin dai tempi più antichi. E’ il tema del rapporto dell’ego con se stesso e con gli altri, il tema della duplicità, affrontato da Robert Louis Stevenson in Lo strano caso del dr. Jekyll e mister Hyde ( 1886) e di Oscar Wilde con Il ritratto di Dorian Gray (1891). Senza mai raggiungere i limiti del paradosso, Menandro e Plauto utilizzavano il tema dello scambio del personaggio  nelle loro commedie per raggiungere effetti comici. Così nell’Amphitruo di Plauto, Giove assume le sembianze del marito di Alcmena per giacere con lei, con la complicità di Mercurio, che si trasforma in Sosia, schiavo di Amphitrione. Il ricorso al doppio qui rientra nei giochi dell’equivoco, non mira certo a proporre approfondite analisi psicologiche. Ovidio nelle Metamorfosi ripropone il mito di Narciso, dove è sottolineato il difficile rapporto del proprio ego con se stesso. Nel mito di Narciso, in cui questo giovane bellissimo  s’innamora della sua stessa immagine, specchiandosi in una fonte, prevale l’amore per sé. Narciso rimane chiuso nella contemplazione di se stesso, non è in grado di aprirsi al mondo esterno per paura di incorrere in un doloroso fallimento. Narciso evita di mettersi in gioco e di trasferire il suo amore in altri. Evita di relazionarsi, ma finirà con l’autodistruggersi allorquando si accorgerà di non poter possedere neppure quella stessa immagine, che è la sua e che con lui stesso scompare ogni volta che si allontana dalla fonte in cui si rispecchia. L’eccessivo attaccamento al proprio io conduce direttamente all’autoannullamento. È la distanza che l’io riesce a porre tra se stesso e gli altri che lo aiuta a conoscersi e a misurare le proprie capacità e attitudini.  Tale distanza era interpretata tragicamente come un tradimento da Narciso, che si credeva invulnerabile chiuso nella sua soggettività. In psicanalisi il narcisismo si designa come un processo psichico: la libido, cioè la pulsione sessuale, rimane rivolta verso l’individuo stesso e non si trasferisce, come accade normalmente, su soggetti esterni. Superare il narcisismo e condurre un’esistenza serena, comporta il controllo del proprio io, sentirlo come una presenza amica, che sta accanto e con la quale si possa dialogare. Diversamente, se l’io è collocato dietro le nostre spalle, lo perdiamo di vista, non riusciamo a presentarlo agli altri e non lo aiutiamo a confrontarsi col mondo in cui viviamo. Ciò produce una sorta di solipsimo, che impedisce all’io di crescere. Infine, se l’io lo poniamo troppo avanti rispetto a noi, il rischio è quello di ingigantirlo e di pretendere che esso faccia ed ottenga quanto non sempre è in grado di realizzare. Il rischio è quello di giungere ad una sorta di ipertrofismo dell’io. Da qui l’antica massima epicurea del ne quid nimis o quella più nota dell’est modus in rebus, su cui si fonda l’ aurea mediocritas dell’esistenza. Questi due modi diversi di rapportarsi con il proprio io contraddistinguono la vita e l’opera di G. pascoli e di G. D’Annunzio: l’uno riteneva che la chiave di volta della conoscenza fosse posseduta dal 'fanciullino' che è in ciascuno di noi; l’altro trovò nell’estetismo, trasformato in superomismo, il suo modo di ingigantire a dismisura il proprio io. In entrambi si assiste ad uno squilibrato rapporto tra la vita e la morte, tra eros e thanatos.
Il doppio, che è presente nel racconto di Ermafrodito, presenta un’analisi psicologica diversa. Come narra Ovidio, la ninfa Salmace, innamorata follemente di Ermafrodito, (prende il nome dai suoi genitori, Hermes ed Afrodite), disperata per essere stata respinta dal giovane, si avvinghia a lui nell’atto in cui egli s’immerge nudo nella piscina, e chiede agli dei che i loro corpi non siano mai più separati. La richiesta della ninfa è esaudita e così in un solo corpo si fondono la natura femminile e quella maschile. Se Narciso si era innamorato della sua stessa immagine e rifletteva tutta la sua libido su se stesso, nel mito di Ermafrodito il doppio è il risultato di due entità diverse, con tendenze affettive contrastanti. La passione che travolge Salmace può essere interpretata, secondo quanto scrive Platone nel Convito, come la forza che spinge l’individuo a superare i limiti della sua natura corporea e terrena, per raggiungere la completezza e la perfezione, congiungendosi con il suo opposto. Del resto, fin dai tempi della Creazione, Adamo avvertì l’esigenza di comunicare e di porre il proprio io fuori di sé, riflettendolo in un altro. Accettò, quindi, di privarsi di una parte di sé, per dar vita ad un essere che presentasse una natura diversa dalla sua e che non fosse la riproduzione della sua immagine. Né Ermafrodito, né Narciso, solo allora Adamo poté confrontarsi con Eva, la donna che gli aprì la dolorosa via della conoscenza e, pur godendo di una libertà finita e condizionata, Adamo divenne un essere in grado di decidere del proprio essere. A differenza del nostro antenato, che per primo intraprese la via eroica della consapevolezza di esistere, Gregor, il protagonista del racconto di Kafka, La metamorfosi, è vittima delle sue frustrazioni, dell’autoritarismo del padre e del suo datore di lavoro, si sente un verme e come tale un giorno si ritrova trasformato in un insetto gigantesco. Tale metamorfosi impedisce a Gregor di comunicare e di stabilire relazioni con l’altro. La trasformazione in un insetto immondo è il risultato della negazione che l’io ha operato su se stesso, fino alla regressione al mondo delle paure dell’infanzia. Gregor, abituato ad essere eterodiretto, privo di una sua autonomia, è incapace di affrontare il mondo degli adulti, di comunicare con l’ambiente che lo ospita, in cui si sente un intruso. Gli incubi di Gregor, alla fine, trovano la loro rappresentazione in qualcosa di repellente, che egli non riesce ad allontanare da sé.  L’unico modo di superare l’incubo angoscioso della sua nullità è l’autodistruzione, il rifiuto della sua stessa identità che potrà scomparire solo con la cessazione di esistere.
Kafka pubblicò La metamorfosi nel 1916, dieci anni dopo, nel 1926 Pirandello pubblicava a puntate su La fiera letteraria il suo ultimo romanzo, Uno, nessuno e centomila, che aveva incominciato a scrivere nel 1909.
Il dramma esistenziale che l’opera di Luigi Pirandello traduce in letteratura è in sintonia con quanto esprimeva la cultura mitteleuropea del tempo, da Kafka a Musil, da Svevo a Joice e si accompagnava alla crisi della cultura positivistica, che aveva promesso magnifiche sorti e progressive, alle quali il Verga, chiuso nel suo conservatorismo sociale, aveva contrapposto l’ideale dell’ostrica nella novella Fantasticheria. La scienza non dà certezze tali da ancorare la vita ad un ubi consistam saldo e indefettibile. Lo scientismo, anzi, finisce col precipitare l’individuo nel baratro del nulla.
Luigi Russo, illustre critico siciliano, attribuisce la natura della sensibilità pirandelliana ad un certo « romanticismo decadente », che suggerisce una « poetica dell’irrazionale ». Ma se il decadentismo rappresentò anche per Pirandello « il crollo delle ultime metafisiche della ragione», la tragedia spirituale dei personaggi pirandelliani nasce dalla lucida quanto appassionata constatazione razionale della condizione umana. La ragione come strumento di conoscenza e di tormento, la ragione come spirale labirintica dell’io. In questo senso, Pirandello ha illustri predecessori in Leopardi, in Lucrezio, in Eraclito.
La ragione del soffrire è la ragione dell’esistenza, l’una deriva dall’altra, ed è vano spingersi oltre per trovare una spiegazione storica o scientifica.
Ma qual è la disposizione etica dell’artista dinanzi all’assurdità della condizione umana ed alla tragedia che ad essa segue? È quella della partecipazione e della pietà, sentimenti che spingono Pirandello, come già Leopardi, ad una sorta di dolorosa fraternità con tutti gli uomini.
Nelle pagine del saggio « L’umorismo », pubblicato nel 1908, a quattro anni di distanza da « Il fu Mattia Pascal » e otto anni prima che iniziasse la sua attività teatrale, l’autore espone l’essenza della sua poetica.
L’autore fa una netta distinzione tra comicità ed umorismo, precisandone la differenza in questi termini: il comico è « l’avvertimento del contrario »; l’umoristico è « il sentimento del contrario », che « sorge o spira » allorquando la riflessione analizza il sentimento "spassionandosene" e « ne scompone l’immagine ».
La riflessione non è, quindi, l’accesso a quel « convulso inconcludente filosofare », di cui parla il Croce; è bensì «una forma del sentimento » che nell’opera umoristica « non si nasconde, non resta invisibile », ma, ponendosi quale giudice del sentimento stesso, genera un senso di pietà ed insieme di angoscia esasperata, dettate dalla stessa spietata analisi che conduce sulle varie e mutevoli forme del vivere umano.
Pirandello osserva la realtà con l’occhio dello scrittore naturalista, ma non riesce a mantenere la sua imperturbabilità dinanzi alla descrizione del « documento umano », che, una volta smontato, non sa più ricomporre in unità, ma gli si scompone in mille maschere diverse. 'Sunt lacrimae rerum', tuttavia l’intervento della riflessione sulle cose ne svela la drammatica realtà dell’erma bifronte, che con una faccia ride e con l’altra piange.
Per il Croce, come si sa, l’arte non può nascere dalla riflessione, in quanti intuizione lirica, e per questo motivo i suoi giudizi furono sempre negativi nei confronti dell’arte e del pensiero pirandelliani. Ma negare valore artistico e creativo alla riflessione pirandelliana equivarrebbe a respingere l’intera opera dello scrittore siciliano e la cultura mitteleuropea del tempo. Era la stessa società che si stava spersonalizzando, sottoposta a processi di massificazione e di appiattimento livellatore, che mettevano in crisi la nozione borghese di individuo dominatore di sé e del mondo. La vita sociale ed economica, dominata da forze impersonali, dai grandi gruppi industriali, da società di affari senza volto, dalle banche, provoca insicurezze e profonde crisi d’identità, mentre annullano l’iniziativa dell’individuo, ridotto ad un ingranaggio di un gigantesco meccanismo, che lo opprime. Anche la nascita delle grandi metropoli e il conseguente fenomeno dell’urbanesimo, che avvia un esodo sempre più massiccio della popolazione agricola nei centri urbani, contribuisce a spezzare i legami personali, creando folle anonime e disorientate. Da qui tutta una serie di inetti, che saranno i protagonisti della nuova narrativa, da Kafka a Musil a Pirandello a Svevo, preceduti da Gongarov con il suo oblomovismo. 
Il dramma che travaglia l’uomo pirandelliano è più acuto e più profondo della condizione esistenziale dell’io romantico, che lottava per autoaffermarsi: è il dramma di chi vive nella società come un estraneo, incapace di comprendere e di essere compreso; è il dramma di esistere senza riuscire a riconoscersi in nessuna  forma; e, infine, il dramma dell’incomunicabilità che avrebbe assunto una dimensione più preoccupante nella odierna società consumistica.
Negli Ossi di seppia, iniziate nel 1916 e pubblicate nel 1925 nelle edizioni di Piero Gobetti, Eugenio Montale  denuncia la negatività della condizione esistenziale, dichiarando insufficiente la parola come strumento conoscitivo: 'non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe … codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo'.
"Il fu Mattia Pascal" (1904) è il romanzo che contiene già tutti gli elementi della poetica pirandelliana: il contrasto tra la vita, colta nel suo perenne fluire, e la "forma" che vorrebbe arrestarla ed identificarla attraverso l’attribuzione di una ' maschera '; il conflitto tra l’uomo e la società; l’impossibilità di comunicare con gli altri ed essere se stessi; e, sul piano tecnico, il ricorso al paradosso e all’umoristico, da cui scaturisce quella originalissima forma di pietas che si esprime col « sentimento del contrario ».
Si potrebbe osservare che Mattia Pascal, come Pepè Alletto del romanzo Il turno, o come Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, o come i tanti personaggi delle numerosissime novelle, non raggiungono mai un loro organico sviluppo e che anzi la loro personalità appare sempre sfuggente e niente affatto delineata da precisi contorni che distinguano, nettamente l’uno dall’altro. Ma ciò che potrebbe apparire incapacità di realizzazione artistica, tanto più se si è abituati ad apprezzare le immagini plastiche e statuarie dei personaggi della narrativa veristica, costituisce la più grande novità dell’arte pirandelliana, non soltanto nell’ambito delle lettere italiane, ma ancor più in campo internazionale.
Il filosofare ed il raziocinare sono per Pirandello, come lo furono per Socrate, gli strumenti per arrivare alla conoscenza della verità, sennonché mentre per i sofisti l’arte della maieutica consente all’individuo di acquistare piena coscienza di sé, nell’artista siciliano la via del ragionamento conduce paradossalmente a conclusioni che approdano ad un razionalismo metastorico, ai limiti dell’irrazionalismo, come influenza diretta o germinazione spontanea delle idee di Bergson. Ma, come nota Carlo Salinari, la concezione esistenziale di Pirandello ' non approda all’esaltazione dell’artista, o del santo, o dell’eroe o del taumaturgo ', bensì conosce, ' il senso della sconfitta e dello scacco ', da cui deriva irrimediabilmente     ' una sensazione angosciosa di nullità '.
L’esasperato razionalismo, condotto, nell’ambito della psicologia, finisce con l’approdare ad un sostanziale solipsismo, che costituisce il dramma centrale della poetica pirandelliana: l’uomo scopre di essere solo con se stesso, di non essere compreso dagli altri, di non riuscire a dominare la sua vita né ad arrestare il flusso continuo delle variazioni, che la sua personalità subisce a causa delle circostanze o di forze che autonomamente provengono dal subconscio; si accorge, insomma, di non possedere alcuna identità, perché ciascuna è destinata miseramente a frantumarsi in tante tessere di un mosaico che mai potrà ricomporsi. Questo stato di perenne incertezza, in cui l’uomo e costretto a vivere, porta fatalmente all’alienazione e al totale smarrimento di se stessi. Pirandello è consapevole di tutto ciò e non s’illude di poter andare oltre la denuncia del conformismo e dell’ipocrisia borghesi, non sa indicare un antidoto, sebbene nelle sue ultime creazioni ci abbia provato ricercando nuovi 'miti', come in Lazzaro o la Nuova colonia, nella speranza di un ritorno alla sanità morale del buon tempo antico, o più precisamente quella che animava la vita ed i rapporti della società contadina. E in questo Pirandello rivela soprattutto i suoi legami affettivi e nostalgici con la gente della sua Sicilia, la cui spontaneità, semplicità, e generosità tornavano alla sua memoria come valori da riscoprire e da riproporre in mezzo a tanta devastazione della personalità, operata da una civiltà che nel materialismo e nel consumismo esauriva tutte le sue energie fisiche e morali.
Per Vitangelo-Gengè tutto comincia in maniera quasi comica: la moglie Dida una mattina gli fa notare, un po’ per celia, che il suo naso pende a destra. Questa rivelazione provocò un profondo smarrimento in Gengè, che in ventotto anni non aveva mai notato quanto ora la moglie gli aveva rivelato. Dall’avvertimento del contrario, da cui può scaturire una risata superficiale, il passaggio al sentimento del contrario è immediato. La risata cede il posto ad una lenta ed estenuante riflessione, che conduce Vitangelo a considerarsi non più un individuo con una sua identità, bensì tante, cento, mille maschere, quante sono quelle che gli altri vogliono di volta in volta addossargli. La molteplicità del reale finisce con l’annullare l’unicità dell’essere, per cui Vitangelo preferisce essere nessuno se non può più essere uno. Comincia da qui il suo cammino sulla strada della follia, al fine di distruggere l’immagine che pensa gli altri abbiano di lui: liquida la banca, che il padre gli aveva lasciato, insieme alla nomea di usuraio; compie azioni stravaganti, come sfrattare da una sua vecchia casa un povero pseudoartista e pseudoinventore, per poi donargli un appartamento e diecimila lire per l’impianto di un laboratorio; abbandonato dalla moglie, che ormai lo considera un pazzo, come del resto tutti quelli che lo conoscono, è circondato dalle cure premurose di Anna Rosa, un’amica della moglie, che spera di poterlo salvare dall’interdizione richiesta dai familiari. Senonché, un giorno, mentre Vitangelo tenta di baciare Anna Rosa, che era ancora a letto per la ferita che si era procurata con la rivoltella scivolatale dalla borsetta, lei, confusa, affascinata e stordita dalle considerazioni curiosissime di Vitangelo sulla vita, quasi in preda ad una  vertigine,  trae di sotto il cuscino la rivoltella e lo ferisce gravemente. Vitangelo si presenterà in tribunale col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino che indossavano i mendicanti dell’ospizio che, per suggerimento del canonico Sclepis, aveva costruito con il suo denaro. In quello stesso ospizio egli ormai vive, rinascendo attimo per attimo, senza un nome che lo identifichi. La vita continua la sua corsa inarrestabile e non sa di nomi. Di volta in volta Vitangelo si sente partecipe della vita di un albero, domani di una nuvola o del vento. "Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori".  Così Vitangelo ha raggiunto la più alta forma di ascesi, attraverso la noluntas di cui parla Schopenhauer, una sorta di nirvana, che dà luogo ad una beatitudine serena e imperturbabile. Non si tratta, comunque, di una rinuncia alla vita, ma di un modo diverso di viverla al di fuori di quella gabbia dorata che la società costruisce intorno a ciascun individuo, fin dalla nascita. La riconquista della propria identità passa necessariamente attraverso la dissoluzione delle centomila che hanno soffocato quella vera. Ma, se Mattia Pascal non è riuscito nel suo fallito tentativo anarcoide di evadere le leggi e le norme che la società impone, rientrando in quella stessa gabbia dorata, da cui temporaneamente era venuto fuori, Vitangelo porta fino alle estreme conseguenze la sua rivoluzione anarchica, rifiutando per intero la società che lo teneva prigioniero e preferendo confrontarsi col divenire della vita in tutte le sue espressioni più naturali. Qual è la sua nuova identità? Quella di non averne nessuna, che non fosse l’unica che egli sentiva vera: una sorta di narcisismo esasperato, che lo colloca fuori della società, gli nega il rispetto dell’altro, ma non di certo un sentimento di pietas. Gengè ha vinto la disperazione di non potersi vedere vivere. Nella solitudine e nell’anonimato dell’ospizio può finalmente vivere, perché rinasce attimo per attimo, muore ogni attimo e rinasce vivo e intero, senza ricordi, non più in sé, ma in ogni cosa che gli sta fuori. Un’interazione panica, non estetico-sensoriale, come il panismo dannunziano, né etico-naturalistica di matrice carducciana, bensì assolutamente esistenziale. Questa soluzione, che può apparire borderline o meglio ai limiti della ragione, esprime il crollo dei miti e un profondo disagio storico.
Nel 1924 Pirandello chiede la tessera del fascismo con grande sconcerto degli intellettuali liberali, tra cui Giovanni Amendola, morto appena due anni dopo, vittima di ripetute aggressioni fisiche di stampo fascista. 'Credo di essere come pochi in grado di comprendere la bellezza di questa continua creazione di realtà che Mussolini compie…'. Il fascismo, come continuo divenire, era considerato da Pirandello un processo di rinnovamento antiborghese e la dissoluzione dei principi e dei valori borghesi, che con la sua arte aveva tentato di dissacrare. Forse, se avesse atteso qualche mese e avesse assistito alla rapida trasformazione del movimento rivoluzionario in regime, si sarebbe ricreduto della volontà di rinnovamento etico, politico e sociale che il fascismo della prima ora aveva promesso. Il conferimento del premio Nobel nel 1934 conferì all’illustre letterato un’identità che lo colloca nell’Olimpo dei Grandi e quest’identità neppure lui potrà cancellarla.  Antonino  Tobia
 

Autore Prof-Greco

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Inserito il 09 Marzo 2012 nella categoria Relazioni svolte