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L'uomo e l'animale: un rapporto antico

Dal rapporto con gli esseri umani gli animali domestici acquisiscono una memoria attraverso l'acculturazione che risulta dall'influenza dell'uomo su di loro. Ne ha parlato il dott. Pietro Ingrande

Relatore: Dott. Pietro Ingrande

Immagine riferita a: L'uomo e l'animale: un rapporto antico Circa 14000 anni fa, tra le tante invenzioni degli esseri umani, quelle che sono considerate fondamentali sono l’agricoltura e la pastorizia che si conclamano con l’allevamento, la coltivazione e l’addomesticamento. Gli animali 'utilizzati' per l’allevamento, erano gli animali che potevano garantire: nutrimento, indumenti e lavoro. Quelli che l’uomo è riuscito ad addomesticare sono : i bovini, gli ovicaprini, i suini e gli equini, oggi considerati 'animali da reddito'. Ogni animale domestico, qualunque sia il numero di razze che lo caratterizzano,  ha uno o più progenitori selvatici. Le razze del maiale(Sus Scrofa Domesticus) discendono dal cinghiale (Sus Scrofa); la pecore discendono dalla pecora selvatica dell’Asia centrale (Ovis Ammon Orientalis), le capre dalla capra selvatica (Capra Hircus Aegagrus); le razze dei bovini derivano dall’Uro (Bos Taurus Primigenius) di cui l’ultimo esemplare mori’ in Polonia il 1627. Tra il 3000 ed 2000 a.C. l’uomo addomestica il cavallo ed il capostipite è il cavallo selvaggio dell’Eurasia (Equus Caballus). L’addomesticamento degli animali progredi’ quando gli allevatori primitivi appresero intuitivamente che le caratteristiche fisiche sono ereditabili, cominciando ad incrociare dei soggetti selezionati, al fine di ottenere nella loro discendenza, una serie di combinazioni dei caratteri più vantaggiosa. E’ per effetto di questo tipo di allevamento'selettivo' che molte specie di animali selvatici si sono allontanati e differenziati dai loro progenitori selvatici. I cambiamenti fisici e psicologici che ne sono risultati rendono questi animali completamente dipendenti dall’uomo. L’attitudine degli animali, ad essere addomesticati, varia in larga misura. Alcune specie che non si riproducono in cattività, devono essere prima catturate e poi domate. A questa categoria appartengono ad esempio: falchi, ghepardi, leoni, che l’uomo ha cominciato ad ammaestrare sin dai tempi degli antichi egizi. Benchè addomesticati dall’uomo per millenni, questi animali differiscono ben poco dalle forme selvatiche e se lasciate in libertà, tornano abbastanza facilmente allo stato primitivo, queste sono definite specie 'ferali', si tratta in effetti di animali solitari, mentre quelli gregari o 'sociali', i cui antenati vivevano in gruppi o branchi dalle dimensioni consistenti, si prestano meglio all’allevamento selettivo. Sembra che questi animali trasferiscano sull’uomo, loro padrone, la sottomissione che avevano verso l’animale dominante del gruppo. Se si confronta ad esempio il cane (Canis Lupus Domesticus) con il gatto domestico (Felis Catus Domesticus) si nota molto chiaramente questa differenza. Tutti i gatti domestici discendono dal gatto selvatico (Felis Silvestris), benché stiano presso l’uomo fin dall’inizio della civiltà egizia e abbiano perso molto della loro selvatichezza, restano tuttavia solitari, indipendenti ed appartati. Infatti un gatto non lavora mai per il suo padrone, cosi’ l’uomo non ha sviluppato un gran numero di razze per dei compiti precisi. Il rapporto tra l’uomo ed il gatto comincia più tardi di quello col cane, infatti risale a quando l’uomo diventa agricoltore e cominciò ad ammassare grandi quantitativi di granaglie, li dove vi erano cereali immagazzinati, vi erano topi e gli umani fecero presto ad accorgersi dell’utilità dei gatti come predatori. Gli egiziani dell’antichità ( 2000 a.C.) hanno divinizzato i tratti del gatto nella dea protettrice Bastet, simbolo di fecondità e dell’amore materno. Grazie ai fenici i gatti si diffusero tra i greci ed i romani. L’immagine del gatto nell’Islam è principalmente positiva grazie all’affetto che portava loro Maometto, dopo essere stato salvato da un morso di serpente da una gatta soriana, Muezza, che poi venne adottata ed amata dal profeta. Per l’affetto e l’amore che nutriva per la sua gatta, secondo la leggenda Maometto regalò ai felini la capacità di cadere sempre su quattro zampe, nonché la presunta facoltà di poter osservare contemporaneamente il mondo terreno e la dimensione ultraterrena. Tutt’oggi nei paesi di cultura araba, il gatto è solitamente l’unico animale al quale è permesso di passeggiare liberamente nelle moschee. Al contrario il gatto fu demonizzato nell’Europa cristiana durante la maggior parte del medioevo, a causa dell’adorazione di cui era stato l’oggetto in passato da parte dei pagani. Nella simbologia medievale, il gatto era associato alla sfortuna e al male, soprattutto quando era nero, e anche all’essere sornione e alla femminilità. Era un animale del diavolo e delle streghe. Nella notte di San Giovanni venivano bruciati vivi centinaia di gatti rinchiusi in ceste assieme alle donne accusate di stregoneria. Le differenti epidemie di peste, dovuta alla proliferazione dei ratti, potrebbe essere una conseguenza della diminuzione del numero dei gatti. Nel Rinascimento il gatto viene rivalorizzato, soprattutto a causa dell’azione preventiva contro i roditori. Nel periodo del Romanticismo divenne animale romantico per eccellenza, misterioso e indipendente. Nel XIX sec.  Diventò  il simbolo del movimento anarchico. Nel XX sec.,  si è mantenuta questa visione romantica con un interesse anche scientifico verso il gatto. Quella con il cane è l’alleanza più antica che l’uomo abbia mai realizzato. Bisogna considerare che c’è stato un periodo storico ( circa 11000-12000 anni fa) in cui hanno convissuto contemporaneamente l’Homo di Neanderthal, l’Homo sapiens ed il lupo. La possente struttura fisica del Neanderthal lo rendeva indubbiamente un predatore più forte del Sapiens e forse del lupo. Questi due predatori resisi conto che nei territori di caccia era sempre più difficile procurarsi il cibo a causa del Neanderthal, strinsero una primitiva forma di alleanza iniziando a cacciare insieme e conseguendo cosi’ risultati migliori di quelli ottenuti dal Neanderthal da solo. L’inizio del binomio uomo-cane ha origine molto antiche e forse la razza umana deve la sua esistenza oggi a quel legame che uni’ il nostro antenato a quello del cane. Il bisogno sociale che noi abbiamo di questi animali è radicato nel nostro DNA. Perciò, dire che il cane è il miglio amico dell’uomo non è una banalità ma è una realtà che ha solide basi storiche e genetiche. I più recenti studi basati sulla genetica, supportati da recenti ritrovamenti paleontologici, hanno portato a ritenere valido il riconoscimento del lupo grigio (Canis Lupus) come progenitore del cane domestico, riconosciuto come sottospecie (Canis Lupus Familiaris). Lo studio di un canide simile a un cane rinvenuto nei monti Altai in Siberia, ha fatto ipotizzare che le diverse razze canine moderne non abbiano un unico progenitore comune, ma discendano da diversi distinti processi di addomesticamento dei lupi in diverse aree del mondo. Ancora incerte sono le ipotesi sul processo di domesticazione , una delle più accreditate è il 'domesticamento naturale' del lupo, una selezione naturali di soggetti meno abili nella caccia ma al contempo meno timorosi nei confronti dell’uomo, che avrebbero cominciato a seguire i primi gruppi di cacciatori nomadi, nutrendosi dei resti dei loro pasti, ma fornendo inconsapevolmente un prezioso 'servizio di sentinelle', stabilendosi in seguito nei pressi dei primi insediamenti e dando il via ad una sorprendente coabitazione tra due specie di predatori con reciproci vantaggi. Alcuni di questi cani selvatici sarebbero poi stati avvicinati ed adottati nella comunità umana dando via ad un perfetto esempio di coevoluzione. La prima testimonianza di un legame affettivo tra uomo e cane risale al più recente periodo Natufiano (12000 anni fa) in Israele con una tomba che conserva i resti di un uomo anziano coricato su un fianco in posizione fetale che protende un braccio verso i resti di un cucciolo di cane. Il tema del rapporto uomo-animale è sempre stato oggetto di speculazioni filosofiche, di indagini antropologiche, di ricerche scientifiche. Se esso oggi torna a richiamare l’attenzione degli studiosi, è perché è riuscita ad emergere ed affermarsi una sensibilità ecologista ed animalista. La rivisitazione del tema del rapporto uomo-animale si presenta densa di possibilità d’indagare la più ampia questione del rapporto con l’alterità, e attraverso questo di condurre una riflessione sul nostro tempo e sulla nostra società. Tramite gli animali, gli uomini hanno sempre pensato e ordinato se stessi, gli altri e l’intera realtà, e la maniera di pensare gli altri viventi è stata sempre un indizio decisivo del loro modo di concepire e rappresentare il mondo. L’animale insomma è stato sempre un operatore simbolico fondamentale. In tutte le culture l’animale è fonte indispensabile per la costruzione dell’umano e del culturale. E’ dubbio che l’uomo possa migliorare se stesso, al di fuori di una relazione affettiva e simbolica con l’alterità animale. Ma oggi quando la tecno scienza tende a fare degli animali mera materia vivente, manipolabile, sfruttabile, clonabile, è ancora possibile un pensiero selvaggio che pensa agli animali per pensare al mondo? Il pensiero occidentale è stato sempre contraddistinto dalla tendenza a pensare in termini dicotomici, di polarità contrapposte, il rapporto natura-cultura e animalità-umanità. Claude Levi Strauss paralava di una linea di demarcazione fra natura e cultura ' tenue e tortuosa ' e si domandava se quella linea di demarcazione non sia altro che una creazione artificiale della cultura umana, un’opera difensiva messa in atto dall’umanità per affermare la propria esistenza, fondare la propria identità di specie e rivendicare la propria originalità. Questo meccanismo servirebbe inoltre a escludere dagli uomini altri uomini e a costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più strette, ma la cultura non può fare a meno del supporto concettuale e simbolico che le è offerto dalla natura. La comparazione con altre società fa emergere come le dicotomie: natura/cultura-uomo/animale-istinto/intelligenza siano esse stesse espressione di una forma particolare di rapporto con l’alterità non umana. Vi sono società che concepiscono il confine tra tali polarità come fluido e mobile e il rapporto fra il mondo animale e quello umano come una relazione improntata alla comunicazione, allo scambio, alla reciprocità. Anche nelle società in cui la 'ragione sacrificale' è un elemento fondante della cultura , quei confini sono fluidi: qui l’animale prima di essere sacralizzato e  sacrificato viene umanizzato, inglobato nel mondo umano e sociale. La moderna messa a morte degli animali, al contrario non ha più niente di sacrificale: la finzione di una morte igienica e umanitaria, come sarebbe quella che si consuma nei moderni mattatoi tecnologici, è volta a dissimulare le sofferenze inflitte agli animali, a cancellare la responsabilità dei sacrificatori, in definitiva ad occultare la violenza della nostra società. La diffusione del consumo di carne insieme alla separazione fra i luoghi d’allevamento-macellazione degli animali e i luoghi della vendita della carne rendono possibile la rimozione simbolica e morale delle condizioni di produzione di quella specialissima merce che è il corpo degli animali. Il consumatore che ad esempio acquista carne di vitello ignora o vuole ignorare che quella carne è ottenuta costringendo il cucciolo di bovino a vivere la sua breve vita nell’immobilità assoluta, imbottito di ogni genere di farmaci che ne invecchiano rapidamente gli organi, imprigionato in uno spazio angusto e buio, infine ucciso senza che mai abbia visto il giorno e la notte, il sole e la pioggia, i prati e i ruscelli. Inoltre il loro confinamento e segregazione, la loro riduzione in macchine per la produzione di latte, carne, uova, pellame, si rivelano distruttori non solo della salute e della vita degli animali ma anche di quella degli esseri umani. Ciò è ben dimostrato dallo scandalo della mucca pazza, dall’aumento dell’insorgenza di neoplasie nell’uomo, dall’aumento delle allergie ed intolleranze alimentari. L’insensibilità della nostra società verso le sofferenze inflitte agli animali d’allevamento va di pari passo con la crescita della compassione e della protezione degli animali da compagnia. La 'gerarchizzazione' degli animali in 'inutili' ( i pets e le specie selvagge in estinzione) dunque degni di rispetto, protezione e affetto, e 'utili' ( animali d’allevamento) dunque abbandonati alla loro sorte di carne di macello, sarebbe uno dei mezzi elaborati dalla cultura occidentale contemporanea per risolvere il senso di colpa suscitato dall’uccisione di altri viventi. Gli animali da compagnia vengono molto spesso trattati erroneamente come eterni bambini, docili e ammaestrabili a piacere o vengono ridotti a puro oggetto feticistico, specchio del proprio narcisismo. In molti altri casi l’animale da compagnia svolge una funzione simbolica che ha che fare con la costruzione ed il rafforzamento dell’identità tanto individuale che collettiva. Infatti il gatto in particolare con la sua reputazione d’indipendenza e d’indocilità non è solo un 'totem individuale' è anche un 'totem collettivo'. Nel proprio gatto l’intellettuale o l’artista contempla ogni giorno l’immagine sognata della propria indipendenza e insubordinazione e celebra la propria appartenenza al mondo della cultura. Se questo accade è perchè nella relazione fra padroni ed animali si riflette fortemente il rapporto che i primi hanno con il resto del mondo sociale. Tanto quella relazione sembra essere contemplativa e gratuita nel caso del gatto, quanto utilitaria e gerarchica appare nel caso del cane. Cosi’ il possesso di gatti e il possesso di cani formano un sistema strutturale d’opposizione: alla cinofilia assai gattofoba di coloro che svolgono professioni la cui fortuna è legata alla salvaguardia di un patrimonio (commercianti, artigiani,comunisti) o che sono preposti alla difesa dell’ordine (poliziotti,militari,sorveglianti) si oppone diametralmente la gattofilia assai cinofoba degli intellettuali e degli artisti in ciò seguiti dagli insegnanti, dai lavoratori sociali e dei funzionari. Da sempre il rapporto dell’uomo con il mondo non umano è stato mediato da stereotipi, o rappresentazioni irrealistiche, distorte largamente immaginarie, che rispondono ben più ai nostri bisogni che non alla realtà del mondo animale. Considerare per esempio, l’animale come un meccanismo privo di sensibilità ( lo stereotipo dell’animale macchina) libera da ogni scrupolo nei confronti delle sue sofferenze e si rivela di particolare utilità in quelle imprese , dagli allevamenti intensivi ai laboratori di ricerca , in cui la logica dell’efficienza e della massimizzazione dei profitti richiede che gli animali siano visti come oggetti da manipolare , materiale da trasformare, in conformità dei disegni tecnici. L’uomo è spesso bestiale nella sua condotta verso gli animali, ma non ha mai voluto ammettere la propria ferocia e ha cercato di sviare l’attenzione da essa, rendendo feroci gli animali, i quali pagherebbero dunque in  quanto specchio del male dell’uomo. Sappiamo che substrati emozionali inconsci di tipo simile sono presenti in molte forme di ostilità, di odi collettivi, nella persecuzione dei diversi, dai neri agli ebrei. In effetti gli stereotipi che dovrebbero legittimare l’indifferenza verso la sofferenza degli animali o giustificare l’ordinaria spietatezza nei loro riguardi, sono strettamente correlati ai modi del pensiero razzista e sessista, come testimonia la lunga storia della discriminazione. Si scarica l’aggressività sui soggetti più indifesi: e, ancora una volta, chi più degli animali, eminentemente deboli, si presta a diventare capro espiatorio? L’instaurazione di un rapporto corretto con gli animali non può dunque che passare, in via preliminare, attraverso l’eliminazione di ogni stereotipia. Compito assai difficile data la straordinaria implicazione di diversi stereotipi, sia negli atteggiamenti popolari sia in molte istituzioni contemporanee. Superare la stereotipia significa accettare gli animali, considerarli in primo luogo, non più attraverso le lenti deformanti delle nostre angosce e paure, ma guardarli come realmente sono, sulla scorta delle conoscenze fornite dall’etologia, dalla zoologia,dalla medicina veterinaria,dalla psicologia:creature senzienti e consapevoli,capaci di una vita ricca e complessa, forniti di interessi e dotati d’intrinseco valore. Si tratta indubbiamente, di un percorso non facile, poiché la stereotipia si nutre di forze inconsce e sotterranee e quindi non si lascia agevolmente eliminare attraverso il ricorso all’esperienza. Bisognerebbe domandarsi cosa gli animali domestici traggono dal loro rapporto con gli esseri umani, essi infatti entrando nelle comunità umane acquisiscono una memoria attraverso l’acculturazione che risulta dall’influenza dell’uomo su di loro. In tal modo l’animale acquisisce un’identità per mezzo dell’umano; per dirla in altri termini ' l’uomo diviene una protesi identitaria dell’animale':potremmo allora chiederci se l’umano non costituisca per l’animale ciò che la scrittura ha rappresentato per l’uomo. ' L’universo non è stato fatto per l’uomo più che per l’aquila o per il delfino: ogni cosa fu creata non nell’interesse di qualche altra cosa ma per contribuire all’armonia del tutto, affinchè il mondo potesse risultare assolutamente perfetto' - Dott. Pietro Ingrande

Autore Prof-Greco

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Inserito il 27 Gennaio 2015 nella categoria Relazioni svolte